Monday, December 23

non saprei




Non pensavo che fosse possibile tornare a questo punto. Sono in stallo, di nuovo.
Cammino da sola nella notte, piove, mi fermo in mezzo alla strada perché la mia testa è da un'altra parte e ci metto una vita a ricominciare a camminare. Immagino di avere una faccia pessima. Guardo nel vuoto l'asfalto e l'acqua che scorre lenta, ed è la stessa di tante altre sere di pioggia in cui sono uscita a cercarti e non ho trovato nessuno. Spesso questi giri hanno una minima funzione catartica, stasera invece non è successo proprio niente.
Un paio di epiphanies degne di nota ma niente di più. Guardo di striscio dentro ai bar per vedere chi c'è.
Non so davvero cosa sperare. So cosa voglio ma non so se sia possibile e come, e questa cosa mi uccide ogni giorno. Eppure il mio passo è calmo come se dovessi salire in verticale per migliaia di metri.
Incrocio un signore anziano che avanza sotto l'ombrello. Lo guardo ma lui non mi vede neanche.
Non lo conosco ma l'avrò visto un milione di volte. Ha dei guanti che mi piacciono. Improvvisamente la vita degli altri mi appare chiara nel suo scorrere lento e inesorabile, separato dal resto, con tutte le abitudini e le azioni condensate, finchè non arriva questo istante. Due vite si incrociano. Non si conoscono, o non si ri-conoscono. Infatti passo oltre e mi sento peggio di prima. Supero una macchina parcheggiata su cui costruisco una storia del tutto arbitraria. Il pensiero mi infastidisce. Complimenti, l'ho creato io e adesso mi disturba, e riesco a fatica a farlo sparire. Passo anche la macchina e ormai sono quasi persa.
Pensarti non serve a niente. Immagino, altri pensieri arbitrari, che tu hai la tua vita, proprio come il signore con l'ombrello, e non è detto che le nostre vite si incrocino. Probabilmente la penso così perché questo è un momento di merda, in cui me ne vado in giro nella notte senza uno scopo sperando di trovare qualcosa da desiderare che mi distragga. Quello che davvero vorrei ha una forma indefinita ma a rigore sarebbe perfettamente realizzabile, qui e ora. Ma chissà se anche questa affermazione non sia un altro pensiero arbitrario. Chissà come sarà divertente, sbrogliare la matassa del mio cervello, se mai un giorno qualcuno deciderà di farlo. Chissà quante altre volte camminerò nella notte in cerca di qualcuno, che non sarai più tu ma un'altra storia, altri mesi di attesa e speranza e disperazione e inutili innamoramenti.
Ma ora no. Ora tutto è assoluto. Un giorno, forse già domani, riderò di questo mio comportamento apocalittico, di questa mia ansia ridicola verso le cose. Faccio tutto come se il mondo stesse per finire. Mi dispero sempre per quello che lascio andare come se quella fosse stata l'ultima possibilità. Nonostante la mia razionalità che tutto analizza e tutto pretende di controllare, sono una mina vagante. Vorrei tanto lasciarmi scivolare addosso gli eventi, ma non ci riesco. Vorrei tanto non pensare a niente e cogliere l'attimo, ma non ci riesco, non tutte le volte.
Mi guardo da fuori e vorrei tanto farmi una risata, e prima o poi la farò, magari la faremo, ma stasera temo di no. Stasera tornando a casa mi sono accorta che va tutto bene finché cammino in salita. Finché c'è un luogo da desiderare, guardare da lontano e raggiungere. Quando torno indietro, la discesa mi dà un maledetto senso di sconfitta, di non senso. Cammino ma niente ha più un significato. Sono il solito zombie che non sente nulla.
Ma stasera nella discesa ho incrociato qualcuno. Una figura incappucciata esce da un negozio con un cartone in mano. Neanche il tempo di pensare cosa sia che attraverso in pieno la scia di profumo di pizza.
È buono, è dolce, confortante, è qualcosa di cui adesso avrei un gran bisogno ma che adesso non c'è; tuttavia ci sarà sempre ogni volta che qualcuno ti passerà di fianco con una pizza nel cartone. Non so. Questa cosa è stata una specie di rivelazione, ma l'ho capito solo dopo. Prima di capirlo, prima di mettere a posto i pezzi in disordine, sono tornata a casa sotto l'acqua senza pensare a niente di sensato, immaginando altri esiti e altri finali di scene già viste mille volte.

Veramente non mi spiego come mai riusciamo sempre a complicare le cose, che sarebbero tanto semplici senza quel che la mente ci costruisce sopra. La felicità, quella cosa su cui molto si scrive e molto ci si arrovella, sta in attimi imprevisti, a se stanti, in cui le cose che prima erano separate ritornano improvvisamente unite. Accade quando ogni cosa è ricomposta, quando mi sorridi e noi due torniamo ad essere uno. Tutto qua. Lo si può leggere negli occhi. Non è necessario che il mondo ne sappia nulla. E non è nemmeno necessario complicarsi tanto la vita. L'Uno è fragile, momentaneo e precario, per noi. Non dura in eterno. Visto in prospettiva, è pure ridicolo. Nonostante ciò, lo inseguiamo e soffriamo in silenzio, e quando è lì a un passo da noi senza poterlo far nostro quasi diventiamo pazzi. Siamo spezzati in due, tutto qui. Perciò la vita è desiderio. La ricerca di quegli attimi non è difficile, ma la mente dev'essere libera. Io e te un giorno non esisteremo più, perché non esisteranno più un Io e un Tu. Tra davvero poco tempo, tutto questo ragionare sarà spazzato via. Le occasioni per far tornare uno quel che è molteplice vanno inseguite con la tranquillità di chi sa che quella è la nostra personale verità, l'unica possibile. Quando ciò che è sempre irrompe nella monotonia del tempo sempre uguale, avrò trovato un 
kairós e lo terrò stretto finchè, come sempre, a un tratto mi sfuggirà di mano. Io so che là nel buio ci sei anche tu. Se ti troverò, ti terrò stretto a me fin quando vorrai scappar via. Combattono le nuvole nel cielo. Nella notte nera cercherò senza paura.

Monday, December 9

kairós




L'insensato flusso del tempo si carica di significato solo quando lo si limita e circoscrive. Allora il tempo non è più chronos, tempo che scorre come un fiume davanti agli occhi, acqua sempre diversa ma sempre uguale.
È bastato un giorno, degli sguardi e delle parole e dei gesti, perché il tempo lineare diventasse kairós
. Tu sei kairós, occasione, occhi chiari nella notte a dirmi che sì, lo vuoi anche tu. Ma perché, a queste parole, mi sono sentita persa? 
Non era quello che volevi, KK? Eppure qualcosa mi ha fermato, proprio io.
Quello che accadrà non uscirà da queste mura. Quello che è accaduto non lo saprà nessuno.
KK, hai creato un 
kairós potentissimo.
Ora il tempo può davvero diventare relativo. I secondi si ammucchiano, e i minuti, e le ore, come quelle lunghissime dell'altra notte; ora non più. Minuti e ore e giorni hanno un senso. Parlarti liberamente e ridere sono stati come una rivelazione. Sono stati meglio di qualunque altra cosa capitata ultimamente. Sorrido e sono felice nonostante la confusione. Forse l'altra sera avrei dovuto mettere il cervello fuori dalla porta come dicevi tu, e a quest'ora avremmo un segreto in più da custodire. 

Invece no. Ho scoperto una cosa nuova e cioè che il mio cervello è davvero difficile da spegnere. 
Soffro perché ti vorrei tutto per me. Soffro perché non so se sia lo stesso per te, ma credo di no, almeno non adesso. Però ho capito quel che mi hai detto. È un momento così, di scoperte. Forse dovrei prenderlo anch'io così, cogliere l'attimo e non pensare a nient'altro. Forse un giorno tra tutte le scoperte ci ritroveremo a guardarci e a sorridere come l'altra sera e non ci sarà bisogno di cercare altrove quello che abbiamo qui, improvvisamente così chiaro davanti agli occhi.
La notte è lunga ma non piove più. Tante notti e tanti giorni ancora attendono di farsi 
kairós, fonte di scoperte, di vita e di senso. Stanno aspettando noi, a chiamarle per nome e farle uscire dalla monotonia del tempo sempre uguale. KK è in attesa. Sente la tranquillità più vicina e vorrebbe urlarlo al mondo. Sta invece in silenzio. KK è piena di fiducia. La calma e il pensiero senza legami portano alla verità.
Kairós, occhi azzurri nella notte, prometto che la prossima volta la mia mente sarà libera.

Saturday, November 30

talk on a plane


21 giugno 2013, ore ?, giorno, da qualche parte sopra l'altopiano siberiano

_Le piace proprio tanto, guardare dal finestrino, non è vero?

KK: - Oh sì. Mi piace.  È anche troppo piccolo. Mi faccio venire il torcicollo per poter guardare giù, cercando il punto più lontano sotto di me.

È l'unica a tenere questo comportamento in tutto l'aeroplano. Nessuno pare interessarsi di ciò che accade nel cielo sotto di noi. Gli italiani mangiano, guardano film. I giapponesi dormono. Si sono addormentati quasi all'istante dopo il decollo. Alcuni in posizioni imbarazzanti. Oh, non la trova una cosa interessante?

KK: - Molto. Si addormentano come bambini appena salgono su un mezzo qualunque. Si addormentano con in mano il telefono, spesso mentre sono in piedi. È indubbiamente un fenomeno da approfondire.

_Non le capita mai? Di addormentarsi così, intendo.

KK: - direi di no. Purtroppo ho troppo controllo di me stessa perché possa accadere. Il mio livello di coscienza è sempre oltre. Qualcosa in me mi impedisce di addormentarmi all'improvviso. Qualcosa in me mi impedisce di cedere. Di lasciarmi andare. Di vivere le cose in modo tranquillo, anche. Questo è un problema, molte volte. Ma ci sono abituata. Mio dio, quante cose ci sarebbero da approfondire. Questo testo rischia di perdersi in innumerevoli digressioni. Dice che i lettori si stuferanno?

_Oh, non saprei. E se anche dovesse accadere, non se ne crucci. La piena comprensione del mondo non è possibile. Il livello massimo di comprensione per noi possibile è in realtà minimo. Parliamo e non sappiamo davvero di cosa. Esistono cattedre e materie ed esami ma davvero mi pare tutta una messinscena, visto che non sappiamo letteralmente cosa possiamo davvero sapere. Insomma, dopo Socrate ogni cosa sembra fluttuare nell'incertezza. Tutto ciò era per dire che i suoi lettori forse apprezzeranno la metà, o meno, forse un quarto, del lavoro intellettuale che lei ha dovuto compiere. D'altronde, contrariamente a quel che si crede, il libro, i libri, mica son scritti per il lettore. Son scritti e basta. A un certo punto qualcosa semplicemente urge. Desidera trovare forma. È difficile e doloroso, anche quando la scrittura e lo scritto escono divertenti. È una nascita. Dopo di ciò e solo dopo, vi è il lettore. O almeno questa è la mia opinione.

KK: - Mi pare un’opinione sensata. Io penso che possiamo solo ragionare su frasi. 


[…]

neanche oggi

Non mi è spiaciuto neanche oggi, provare quell'angoscia di perdere qualcuno, di non vederlo più. Non la provavo da tempo. Mi accorgo che anche lei, cercavo nell'ombra. Non mi è spiaciuto, farmi asciugare le lacrime. È stata la cosa più dolce della giornata e avrei solo voluto scoppiare a piangere tra le sue braccia, finalmente libera. 
Tu eri semplicemente assente. Tu non mi offrivi in fin dei conti alcun aiuto. Lui era dolce, lui è stato dolce. Io ero debole e lui non mi ha attaccato. Io ero debole e lo sono ancora. 
Non capisco cosa mi succede. Le lacrime che prima trattenevo cadono ora in gocce copiose da occhi stanchi. Sono tremendamente stanca, di tutto. Vorrei piangere a dirotto fra le sue braccia, e sarebbe anche un pianto di felicità. Tu sei di nuovo distante, lontanissimo da me. 
Oggi questa sensazione ha dominato tutto il giorno. La mattina era ancora sopportabile, le distrazioni erano tante. 
Arrivata a sera era diventata pesantissima. 
Qualcosa è scattato nella mia testa e ho capito che non avevo più voglia di sentirmi così. 
Trattata così. 
Allora c'è stato un crollo. 
La misura è piena. 
Immaginate un fiume che rompe gli argini, proprio dentro di voi. Ma di nuovo, per quanto avessi voluto scappar via, sono rimasta lì con te senza far trasparire nulla. 
Poi è venuto il temporale. Poi non ci ho visto più. Tu, sorpreso, sei diventato improvvisamente comprensivo. Ma era davvero troppo tardi. Ero stata lì per te fino ad allora ma te n'eri disinteressato.

Ora piove e io sto per piangere, non riesco a parlare e con gli occhi a terra penso solo che vorrei sparire. Tu appari premuroso, ma io non ti guardo. Lui mi sfiora le guance e mi sorride, e questo mi è bastato. È stata l'unica cosa capace di salvare la mia giornata. 

Poco più tardi, tornando a casa in bici sotto una pioggia torrenziale, sento l'acqua battere sulla schiena e scivolare giù, sento le gocce una ad una diventare un fiume indistinto che entra da tutte le parti e lava via ogni cosa; e sento chiaramente qualcosa di me andarsene assieme all'acqua sull'asfalto nero, assieme a sassolini e rametti e detriti e foglie.
È quasi buio e le macchine sono fari rossi tremolanti che mi passano a fianco alzando ondate d'acqua, e mi chiedo fino a quando mi vedranno, mi chiedo fino a quando riuscirò a schivarle, la strada è in salita, la strada è un fiume in piena grigioblù, io sono una figura indistinta e completamente fradicia, e anche abbastanza ubriaca, che si sforza di andare dritto senza pensare a nient’altro.
I suoi occhi azzurri volteggiano davanti a me. Qualcosa di lui mi si è stampato dentro senza che nemmeno me ne accorgessi. Sono una tavoletta di cera su cui qualcun altro ha impresso un segno, su cui milioni di segni possono essere tracciati senza che io davvero ne sappia nulla. Mentre l’acqua si fa strada sotto la maglia e i pantaloncini e scivola lungo le gambe, e in un attimo inzuppa le calze e le scarpe, mi rendo conto che qualcosa è cambiato. 
Sono completamente fuori ma non sono più la stessa. 
La strada maledetta è finita. La salita non era così lunga, dopotutto; la strada spiana, aria fresca e altra acqua ora in discesa, tombini, pozzanghere, la bici non frena, curve, i lampioni già accesi, le macchine, fari, finalmente la strada di casa. Davanti al cancello ci metto una vita a tirar fuori le chiavi e a impugnarle, le mani sono gelate, eppure tenere il manubrio era così naturale, ma ora le chiavi proprio non riesco a prenderle in mano e dividerle e trovare quella giusta. Apro e sono dentro. È tutto finito, o forse no. La sensazione di stasera mi perseguita e lo farà per molti giorni. Piove. La notte sta arrivando e sento che lui mi manca già.

Thursday, November 28

rivelazione


Salivo tranquilla e senza pensare a niente, quando la voce ha iniziato a parlarmi. È forte e chiara, scandisce le parole con calma e viene direttamente da me. Ho approfittato di questo momento, mi dice. Tu devi approfittare di questi momenti, per comprendere la verità di tutte le cose, compresa la tua vita che tu pensi così complessa e totalizzante e che a tratti ti fa disperare. Perché mai, tutto ciò? Perché mai, tutto questo inutile affannarsi a correr dietro a pensieri, giudizi, inconsce paure su di te e sugli altri?
In realtà, la tua vita non è nulla di separato da tutto il resto. L'esistenza stessa, di cui la tua fa parte, è il mare calmo che torna sempre uguale dopo ogni tempesta. Tutto si muove, sotto il pelo dell'acqua, e ti sembra che accadano cose, e ti sembra che le parole dette dagli altri siano irreparabili; le persone muoiono, questo sì; forse questo è l'unico mistero che ancora può rimanere intatto. Ma tutto il resto è pura apparenza.
Non vedi quanto è semplice, seguendo la mia voce, ricondurre i molti a uno?
Ma presto la voce sparirà. Tutto sarà come prima. I momenti di consapevolezza sono rari e la vita ci impedisce di vedere l'orizzonte che sta sempre là davanti. La vita che costruiamo giorno dopo giorno come fosse un castello di lego, che agghindiamo e addobbiamo come l'albero di natale, che mostriamo a tutti sottoforma di Identità immutabile, è un simpatico castello di carte in attesa di un soffio di vento.
Le risate sono assicurate. Venghino signori allo spettacolo! il divertimento non mancherà, quando un'altra tempesta rivolgerà le acque, sposterà i riferimenti, sconvolgerà il senso.
Tuttavia l'esistenza del tutto non farà una piega. L'acqua tornerà sempre calma, il mare sarà piatto e tranquillo sotto il cielo chiaro. Dunque perché affannarsi tanto? Perché i pettegolezzi, la cattiveria, l'ostilità insensata? Perdiamo in partenza.
Del nostro affogare, nel buio là in fondo, arriverà sul pelo dell'acqua solo qualche bolla silenziosa.
Prima di noi e dopo di noi, il mare era e sarà calmo per sempre.

Friday, October 4

venerdì sera

Vorrei dire qualcosa, dirlo al mondo, ma in un venerdì sera di feste e birra chi vuoi che stia a sentire le parole scomposte di KK? 
Non le ascolterei nemmeno io, se solo potessi stare dall’altra parte. 
Le rare volte che ci sto, sono spezzata in due. Quando tutto sembra perfettamente ricomposto, KK si sente tranquilla. Ma dura un attimo, ed è raggiungibile solo inondando il corpo di endorfina chimica. KK non sente e non vede la crepa, la frattura che è in lei così fastidiosa. Essa è tanto più odiosa quanto pare assente negli altri. Ma cosa ne sa KK, in effetti? La vita degli altri è solitamente un enigma. Forse, molto probabilmente, la vita degli altri è molto simile a quella di KK. Ma no, quella maledetta crepa non c’è. In loro non ve n’è traccia. Se no non sarebbero tutti così sguaiati. Avrebbero un po’ di rispetto, per chi nella crepa ci vive e, a volte, ci resta secco. Siamo tutti spezzati, ma nessuno vuole davvero ammetterlo. 
Al contrario, KK è maledettamente riflessiva e non vede la stessa attitudine negli altri.

Quando KK si accorse di questo, un giorno lontanissimo, preistorico, del liceo, fu assalita anche da un pensiero autodistruttivo. Chiuse gli occhi e pensò forte forte a come avrebbe voluto nascere dall’altra parte. Loro, i suoi compagni, erano così perfetti. Inconsapevoli della crepa e di tutte le sue conseguenze. Naturalmente era apparenza. Naturalmente quel ridere e quell’emettere sentenze e quello sbaciucchiarsi e dirsi amore tesoro sei stupenda erano una copertura. Dentro loro soffrivano, forse, ma se ne stavano zitti. Ora KK può deriderli, per quella loro pochezza adolescenziale. KK si lasciava così sconvolgere dalle cose e dalla realtà, da scrivere come una pazza, nell’ora di religione, invocazioni e racconti a proposito di criceti su una ruota, che volevano rappresentare gli alunni a scuola. 
Lei li odiava, tuttavia avrebbe tanto voluto essere come loro. Gli altri apparivano isole di perfezione in mezzo al caos dell’adolescenza. Tutto in loro era falso. Allora KK non poteva capire il profondo senso filosofico della loro falsità. La parola falsità era anzi usata a scuola, spesso dagli stessi falsi, per definire chi stava loro antipatico o non si comportava secondo il loro codice. Ma loro incarnavano davvero, nel vestirsi, nel parlare, nei rapporti con gli altri, il grado più potente del Falso. Avanzavano per i corridoi a grandi falcate, decisi, sicuri di sé, e senza degnarti di uno sguardo. Potevi sentire le risate alle tue spalle. A volte ti sbagliavi, quelle risatine non erano per te. Ma a volte si diventa paranoici. La loro sicurezza si nutriva di un saldo quanto effimero controllo sul mondo circostante, fatto da cose, persone, e ambiente in generale. I loro gesti e le loro mosse si adattavano perfettamente all’ambiente e alla situazione. Condividevano con gli altri il modo di chiamare le cose. Condividevano con gli altri il modo di rapportarsi al mondo. KK rimase subito affascinata da questa capacità di adattamento, giudicandola comunque qualcosa di elementare e non particolarmente lodevole. Del resto di comportarsi come gli altri, di essere uno uguale all’altro, sono capaci tutti. KK tentò anche, per un certo tempo, di vedere se un dialogo fosse possibile, con l’altra parte. Le volte in cui dette fiducia, rimase delusa. Allora cercò alleati. Tra quelli che stavano sulla sua stessa barca, ognuno aveva sviluppato modi diversi e fantasiosi per sfuggire all’indifferenza e alle angherie. 
L’importante è identificarsi. Se quelli non sanno cosa sei, non riescono a incasellarti, sei fottuto. 
Se sei indeterminato generi antipatia solo a guardarti. Così c’era chi si rivolgeva al punk. Altri rimanevano orribilmente anonimi. Questi venivano eliminati per primi. Si autoeliminavano. 
Molti lasciarono la scuola proprio in questo modo. KK vedeva la loro sofferenza ma non poteva far nulla. KK ci mise un po’ a ottenere una posizione decente, a entrare in una casella in modo che gli altri smettessero finalmente di chiedersi cosa fosse e smettessero di disturbarla. Tuttora KK non ha idea di quale fosse quella casella e di cosa pensassero gli altri di lei. KK era probabilmente un enigma. A tratti se ne usciva con cose geniali che lasciavano gli altri interdetti. Chissà se avrà acceso in loro una luce, per dire che non è tutto qua. In ogni caso, da quella posizione sconosciuta, KK potè osservare da vicino la nascita e lo sviluppo di quel falso che nella vita adulta causa la stupidità e il danneggiamento del mondo e della vita umana. 
 E KK non ha paura di essere troppo apocalittica dicendo questo. 
I germi dell’odio e della crudeltà di cui l’uomo è capace sono vivi più che mai, in una classe di liceo. 
Il disprezzo che grondava dai commenti alle parole dei prof, dalle risposte stizzite e irrispettose che KK sente ancora risuonare nelle orecchie, era lì, in bella vista nella sua semplicità disarmante. Il candore con cui gli altri rispondevano male ai prof era qualcosa di incredibile. Un giorno la supplente della Giovanelli, che non aveva molti anni più di noi e che tradiva il nervosismo attorcigliando le mani tra loro mentre spiegava, rischiò di scoppiare a piangere. Quegli stronzi l’avevano distrutta psicologicamente. Lei ingoiò le lacrime a fatica. Lei era alla cattedra, ma loro l’avevano trascinata con le parole e gli sguardi e le risatine, tra i banchi, e lei era di nuovo una ragazzina al liceo, angherie che si ripetono ancora e ancora anche dopo che ti sei preso una laurea, un dottorato e hai vinto un concorso. Guardandola senza poter fare niente, KK capì che gli altri e le loro parole subdole, i loro sorrisi di scherno, erano impossibili da fermare. Non c’erano leggi scritte, leggi della scuola, che impedissero a loro di farti stare male anche senza bisogno di parlarti direttamente. 
La supplente infatti non punì nessuno. Piangeva per la sua impotenza, perché contro la pura cattiveria silenziosa non si può far nulla. E anche perché nella classe come nella folla, non c’è nessun colpevole. Risatine continue risuonano tra i banchi, ma chi può dire che sono per te? 


Tuesday, October 1

lezione del weekend


Sono su un ghiaione scosceso e fastidioso in un giorno di ottobre. Non devo scivolare per nessun motivo. Sotto ci sono varie cose appuntite su cui non voglio atterrare. L’erba è semi umida, spunta a tratti tra le pietre marce e sfasciate, c’è uno stratino bianco di brina, ma a toccarla non è fredda. Sono appesa con un piede e una mano ad una roccetta solida, ma la cosa non durerà a lungo. Già la sento sfaldarsi sotto la scarpa.  Affondo avidamente le dita nella terra nera sotto la roccia, creo un appiglio. Respiro a tratti lunghissimi. Eppure laggiù nella valle, lontano ma non troppo, ci sono case, e la via principale inondata di sole, e persone che probabilmente passeggiano, e la chiesa gialla che sta immobile in mezzo ai pini verde scuro. Qui da molte ore è scesa l’ombra, e le pietre sono fresche, tendenti al freddo, umidicce, i rododendri stanno abbarbicati poco lontano da me e mi guardano, e io so che devo raggiungerli e attaccarmi a loro per riuscire a spostarmi da questa assurda posizione. È in effetti una situazione fastidiosa e un poco preoccupante, ma io non provo nulla. Sassolini si staccano da dove sono appoggiata e rotolano a valle saltellando. Sembrano divertiti. Alzo lo sguardo, e in cima al ghiaione, oltre un salto di roccia grigia e pulita, le teste di tre camosci mi osservano dall’alto, le corna corte e appuntite che si stagliano contro l’enorme parete retrostante. Sembrano divertiti.  Ho la sensazione che nel cielo senza sole, oltre i camosci e la parete, qualcun altro o qualcos’altro mi guardi dall’alto.

***

È sera, sto scendendo a valle in macchina, su una strada deserta. Davanti a me un immenso gregge di pecore belanti, una quindicina di agnellini bianchi e puliti, tre cani dagli occhi azzurri, e la jeep del pastore, vecchia e traballante , senza targa, carica di oggetti strani. Seguono il gregge in vari punti, per non disperderlo, tre pastori di cui uno giovane e scattante, in canottiera nonostante i sei gradi esterni. Tutt’intorno, campanacci, grida disperate, guaiti, fischi, pecore che saltano il guard rail, pecore che inciampano, zoppicano, si avventano a mangiare l’erba a bordo strada, corrono terrorizzate quando i cani le inseguono. Si muovono in modo scomposto, e traboccano dai confini della strada verso il bosco, verso il prato, riempiono come acqua che corre ogni antro libero, prima che qualcuno le riporti sulla retta via. In fondo al gregge un asino carico di agnellini, sei teste sporgono dalla sella e ondeggiano ad ogni passo. Ogni tanto l’asino si inchioda, e il tipo che lo guida lo guarda male e gli mostra il bastone agitandolo in aria, finchè l’asino non riprende. È quasi buio. C’è una luce blu, fredda, la valle è invisibile sotto uno spesso strato di bruma, si vede qualche cima sprofondare nella notte, e qualche luce arancione nella valle.            Mi avvicino alla jeep, e i miei fari illuminano il  retro aperto e scrostato. Nel cassone c’è un agnellino che tenta di stare in piedi nonostante le scosse della jeep, sta fermo e ben puntato sulle zampe,  e le zampe sono più grandi della testa e del corpo, ma stare in piedi è difficile, lui è di un bianco abbagliante alla luce dei fari, ondeggia pericolosamente, deve stare in piedi in mezzo a una serie di carabattole tra cui del fil di ferro, e ogni tanto quando la jeep frena lui cade in avanti e poi si rialza. E guarda me, guarda oltre la jeep l’asfalto che scorre, accenna a belare, chiama qualcuno, cade di nuovo. Io lo guardo, bloccata dietro, impotente verso di lui, verso la jeep, verso il gigantesco gregge che mi impedisce di passare, verso tutta la crudeltà del mondo che sta nei suoi occhi che mi guardano. Ho come la sensazione che non saremo, non siamo mai liberi del tutto; ho come l’impressione, ed è chiara, viva, che la violenza che noi ora non vediamo sta da qualche parte, sta ora latente, nascosta, sorridente ad attenderci. Il nostro momento è ogni ora, ogni secondo, il nostro momento è negli attimi persi, negli sguardi che ci perseguitano. L’agnello ha continuato a guardarmi per un tempo lungo e indefinito, e dentro c’era la storia del mondo. Ogni sua caduta sarà anche nostra, e ogni suo pianto ha la nostra voce. Nel suo guardarsi attorno smarrito ho rivisto tanti occhi tristi chiamare aiuto, e noi distogliere lo sguardo.
Ma ora mi fissa con gli occhi umidi e non posso sfuggire. Forse un giorno nessuno potrà sfuggire quando ci porteranno il conto di tutte le volte che abbiamo guardato a terra invece di sostenere lo sguardo. 
Cade di nuovo e si rialza, ma la jeep non smette di traballare. 
Io sto dietro, comodamente seduta in auto, le mani ancora congelate per la discesa a piedi, la faccia che comincia solo ora a scaldarsi.  Ma tutto va bene per me, in effetti.

Poco dopo è buio. I pastori sono agitati. Uno di loro corre avanti superando le pecore, con un telefono in mano. Qualche minuto dopo il gregge si arresta, o meglio smette di avanzare ma continua a muoversi sul posto, si agita e sale da tutte le parti sui lati della strada. C’è un cavallo che non avevo visto che sta in mezzo al gregge e sembra agitato, si alza e scalcia, il tipo che lo tiene lo maledice e poi comincia a farfugliare cose a me che sono in macchina, dicendo che mi distruggeranno la macchina se sto lì. A questo punto il gregge comincia a tornare indietro. Sono appena davanti a me. Metto la retro, ma dietro c’è un’altra auto, mette la retro anche lei ma si ferma a bordo strada. Io parto e la supero, il gregge davanti a me corre ora, mi raggiunge, mi ha raggiunto e mi supera mentre io sto ancora andando, ma ho paura di metterne sotto qualcuno e rallento. Le teste delle pecore scorrono appena fuori dal mio finestrino, mi circondano e continuano ad avanzare oltre, finchè come una nave incagliata rallento sempre più fino a fermarmi in mezzo al fiume di pecore, che passano come fantasmi bianchi e improvvisi davanti ai fari, appaiono e scompaiono nella strada blu che ora è un fiume senza forma, bianco e belante.


la Toscana d'inverno


Com'è la Toscana d'inverno? Credevo di ricordarmelo e invece non lo so più.
Le nuvole corrono in un cielo chiaro, limpido e grandissimo e tutte le cose che stanno sotto non hanno più senso. Ci sono io che seguo questa macchina per le curve dolci delle colline, che ora sono verde acceso, brillano di tenere foglie nuove. Questo è un viaggio eterno. Ho fatto questa strada tante volte ma il viaggio di oggi resterà stampato nella mia testa per sempre. Non penso più a com'è la toscana d'inverno perché adesso qui è improvvisamente primavera. Da oggi le cose non saranno più le stesse.
La mia stupida presunzione di riuscire a non farmi coinvolgere troppo dalle cose ha fallito in pieno. Flash dell'infanzia mi invadono la  mente. Oggi l'aria è fina e appena tiepida. In questa casa ora vuota l'estate ha i profumi intensi del fico e della terra riarsa dal sole. Che senso ha tutto questo quando noi ce ne andiamo? Chi starà nella mia stanza quando io non ci sarò più?
La strada corre davanti a me ad una velocità che mi permette di guardarmi intorno. È tutto una distrazione oggi, per non guardare troppo la macchina grigia là davanti. Sull'asfalto stanno delle foglie che il vento prende e sposta in circoli ordinati e fa danzare in aria. A tratti stormi di uccelli attraversano il cielo davanti a noi. Ricordo solo ora di quella volta, tempo fa non lontano da qui, in cui due cervi mi attraversarono la strada. Uno si fermò nel mezzo e mi guardò fisso, i muscoli tesi, immobile. Nei suoi occhi, un terrore puro e naturale. Dopo un attimo corsero via, scivolando gli zoccoli sull’asfalto.

***

In chiesa, quando tutti stanno ancora prendendo posto, in signore simpatico, con folti capelli bianco argento, saluta la nonna. Le prende il viso tra le mani sorridendo e ripetendo il suo nome, la nonna un po' si scosta ma sorride anche lei. Chissà da quanto si conoscono e da quanto non si vedevano. Ma ora sembra che il tempo non sia passato, sembrano amici che si sono appena lasciati e ora si rivedono. Quel gesto è familiare, amico, pieno di una sorta di amore universale. La nonna ha gli occhi lucidi. Non avevo mai visto la nonna così. Per la prima volta da quando non c’è più il nonno, non mi è sembrata sola. Più tardi, mentre camminiamo sulla strada deserta e assolata che va verso i campi e verso il cimitero, mi appare improvvisamente il senso di quella visione, e li vedo tutti di nuovo, li vedo bambini e poi ragazzi, e poi giovani come me, li vedo tutti come esseri umani senza età, e poi rivedo me e mi sento persa. I cipressi sono alti e folti e si muovono piano nel vento. Quante giornate come questa in Toscana. Improvvisamente li vedo tutti e scopro che tra me e loro non c’è in fin dei conti alcuna differenza. Che cosa significa essere giovani? Perché tutti continuano a dire questa cosa? Osservo rapita le foto di parenti lontani e il senso di tutto questo appare semplice come non mai nella sua assurdità. Forse è un compito, un ciclo, un cerchio che ogni volta riparte e poi si chiude; forse la nostra vita è davvero il battito di ciglia di un dio sconosciuto.
Così, in chiesa, accade che riesco a restare tranquilla per tutto il tempo in cui il prete parla. Dice di dio, di comunione, di giudizio, di libertà e di amore. Dice tante belle cose che però vengono dette per ogni morto, in modo che ogni volta le persone che stanno là davanti con gli occhi lucidi abbiano un po' di sollievo. Mi concentro in questo esercizio, come facevo alle messe della scuola, e come avevo fatto al funerale del nonno; ricordo che ci ero riuscita finchè Giulia, che aveva sette anni, sentendo il suono dolce delle preghiere cantate, non era scoppiata a piangere attaccandosi al mio braccio. Allora ho pensato che niente di quel giorno, di quei mesi passati, e niente di quello che era successo al nonno aveva una parvenza di senso. Ho smesso solo da poco tempo di sognare che le cose andassero in modo diverso. Per mesi e anni, in tante notti ho sognato di un epilogo diverso, l'epilogo alternativo. Sognavo che il nonno ci venisse restituito così come lo ricordo quando stava bene.

***

Tuttavia questa volta, in chiesa, è stato diverso, più sereno. È successa una cosa strana, e cioè che a mandarmi in crisi non è stata la morte, ma la vita. Stringere le mani delle persone, vederne i sorrisi, sentire i loro ricordi mi lasciava inebetita e non in grado di rispondere. A volte mi pare che siamo freddi, nei nostri rapporti con gli altri. Anche con le persone vicine. A volte vorremmo dire tante cose ma dalla bocca non esce niente. All'improvviso vedo me stessa ringraziare ed esprimere quello che davvero ho dentro ad ognuna di queste persone. Ma è solo una visione. Nella realtà riesco solo a balbettare qualcosa, e a mettere tutto il mio calore nelle strette di mano, ma niente di più, niente di quello che vorrei. Alla fine non sono per nulla sicura di aver detto tutto. Mi pare di aver detto le solite cose, mentre tutto il resto continua a vorticarmi dentro.

La seconda cosa che mi ha mandato in crisi e di cui mi sono accorta solo tempo dopo, è stata la crema di zia Lina. L'ultima crema che era rimasta in frigo dalla domenica. L'abbiamo mangiata martedì, a pranzo, dopo essere tornati da torrenieri. Era proprio l'ultima. Non me ne rendo conto subito. Quella stessa sera, molte ore e molti chilometri più tardi, quando rimango da sola nel buio della macchina a ripensare a tutto il vortice degli avvenimenti, mi torna in mente la crema, capisco che era davvero l'ultima e capisco che niente sarà più come prima, e allora come Giulia scoppio a piangere a dirotto. Continuo a guidare, osservando attraverso le lacrime i fari rossi delle auto davanti a me  diventare luci tremolanti e incerte, la strada scura e il cielo nero scorrere nella notte ignari di tutto, e anche io mi sento vuota e stanca, di una stanchezza inutile e senza senso.


Friday, September 20

Maledettamente ridicoli

Non siamo maledettamente ridicoli? 
KK pensa intensamente a questa cosa, e a se stessa e ai suoi desideri, e non prova nulla. Ripensa con grande concentrazione a ciò che vorrebbe dire, guarda dentro di sé. Non trova niente. 
Tuttavia il tempo avanzerà ugualmente, e mangerà tanti di quei giorni ancora, giorni inutili come questo. In fin dei conti che importanza hanno, i giorni, in sé e per sé? Ognuno si inventa eventi e cose da fare perché i giorni si differenzino gli uni dagli altri, e perché messi assieme e visti da lontano siano una storia. Ma restano una semplice invenzione.

Allora KK vorrebbe ora inventare un nuovo modo di essere, di esistere, vorrebbe dire una nuova vita ma ancora non è quello il punto. 
Ci sarebbe da cambiare proprio tutto
KK vorrebbe ora ridere in preda all’alcol e incrociare i suoi occhi e vedervi una luce, un lampo che dice , aspetta solo un attimo, stiamo qui a studiarci da lontano, non aver fretta, non preoccuparti che prima o poi succederà qualcosa, e prima che tu possa aprir bocca io sarà ormai troppo vicino, e capirai tutto, tutto il mondo in uno sguardo che desidera solo te e di cui nessuno davvero sa nulla. Oh sì. Nessuno sospetta nulla, qui attorno. KK ama la complicità. KK a tratti vivrebbe solo di quei tuoi sguardi, che prima di essere tuoi erano di molti altri esseri umani come te, nei quali in momenti diversi quell’energia si è concentrata; su di loro, gli amori temporanei, le infatuazioni senza meta precisa, KK ha investito tutta se stessa, e questo accadeva ogni volta, per ognuno, singolarmente. Forse varrebbe la pena di farsi uno schema con la durata di quegli amori maledetti, pensa KK, in modo da sapere in anticipo quanto durerà il prossimo, e quanto durerà quello presente, e se è possibile evitarne la ripetizione, o alleviare la pur piacevole sofferenza che ci causa. KK non sa davvero più cosa pensare. Un anno fa, questo, e molte altre cose, erano in effetti impensabili. Ma invece succede sempre, maledizione. KK è presa da due cose contemporaneamente, anzi forse la prima è ora passata in secondo piano. Il nuovo temporaneo ha preso il sopravvento. L’altra, l’altro, ciò che era primo ed era sembrato, con grande cautela, per sempre, è ora una stanza buia, una luce spenta, è semplicemente invisibile. La nuova luce dell’altro temporaneo acceca.
Bisogna stare attenti all’accecamento, KK, ricordalo sempre. 
Ma si sta così bene, senza pensare troppo. In queste giornate che sembrano senza senso, in cui tu sei assente anche se ripetiamo che va tutto bene, l’accecamento è tutto. L’accecamento è l’unica cosa possibile, quella che permette a KK di andare avanti. KK chiude gli occhi e cerca di capire. KK soffre in silenzio guardandovi da lontano. KK è sempre stata leale ma non ha mai voluto sentirsi così. 
Vorresti forse una pausa da tutto, non è vero? 
Credo di sì, dice KK candidamente. Io voglio poter parlare chiaro, aggiunge. Poi, silenzio. KK con la testa sott’acqua pensa di nuovo ai tuoi occhi nella sera calda umida, è uno smarrimento senza parole, silenzioso, un cenno invisibile e solo per noi, un sorriso che vuol dire tutto. Cosa aspetti, KK? Cosa aspetti perché tutto, nella tua esistenza, diventi reale?

Friday, August 23

Non mi è dispiaciuto

Non mi è dispiaciuto, quando mi ha toccato il braccio. Non mi è dispiaciuto, il suo sorriso che pure suonava così strano. Non mi è spiaciuto, sentirmi sfiorata da altre mani e altre parole. La verità è che cerco qualcuno che dia senso ai miei giorni; perché tu non ci sei più.
Che senso ha questa mia attrazione?
Mi pare, stando ferma qua, di accumular tristezza.
Mi pare, incrociando i suoi sguardi, di intravedere una vita nuova dietro l'angolo, appena oltre; una nuova considerazione, un nuovo modo di essere me stessa e di sentirmi. O forse è tutto frutto di quel bellissimo e maledetto momento in cui non fai altro che sentire le farfalle nella pancia e pensi che dureranno per sempre. Ma io aspiro a questo. Io ci credo, che questo sia possibile. Magari mi sbaglio, ma io cerco questo. Se questo non c'è più, posso anche passare oltre.
Io ora sono qui, a tratti soffro, a tratti cerco di recuperare e di avvicinarmi a te ma tu sei sempre distante. Mi accorgo che questa dinamica è logora, non può durare in eterno. Mi stai perdendo. Giorno dopo giorno. Io non vorrei perderti perché in fin dei conti non voglio proprio star da sola. Forse però dovrei farlo. Ma non voglio fare nessun passo. Io sto qua e aspetto, come spesso faccio per altre cose. Stavolta è diverso. Stavolta è una specie di esperimento; tuttavia non voglio farti soffrire.
Io voglio amare, è così difficile da capire? È possibile che quella spinta si esaurisca così presto? Amore è tutto, porta avanti e trascina con sé ogni cosa del mondo, in una felicità voluttuosa ma anche composta, ordinata, meravigliosa. Dov'è, tutto questo? Ti guardo da lontano e sento che quella cosa si è spenta; i tuoi sguardi non mi dicono niente; i tuoi gesti verso di me sono bruschi. Guardo lui e cerco di nuovo quello smarrimento; cerco il brivido, quella piacevole sofferenza agrodolce che tante volte è rimasta insoddisfatta ma che ha nondimeno mandato avanti molti dei miei giorni. Quel sentire dolce, quella voglia di sfiorarlo e di essere soli e tranquilli. Anche solo per una volta.
Piove, adesso. La notte è inquieta ed io anche. Ma sono lucida, perché ora le mie parole riescono a dire quasi con esattezza cosa voglio. Ma non per questo le cose sono più facili e meno dolorose. Sento bruciare quella sofferenza come la prima volta, come tutte le volte. Desidero quel coltello nel fianco.
E così adesso, in questa stanza con la luce spenta dovrei dormire. Chissà se nei miei sogni verrà a trovarmi.
Dio, come vorrei che in qualche modo fosse qui con me, ora. Senza dir niente a nessuno. Solo noi. Tutto daccapo come la prima volta. Aspetto solo un suo segno, per farmi capire che lo vuole anche lui e non sta solo scherzando. Aspetto solo un gesto.
Com'è possibile questo? Eppure di te sono ancora gelosa. Come cavolo è possibile questa compresenza di sentimenti e questo delirio? Eppure tutto ciò riesce a convivere perfettamente in me. Passo da un pensiero all'altro senza controllarne l'eventuale razionalità o logica, con una facilità che mi lascia piacevolmente sorpresa. Vi osservo da lontano e non mi scompongo. Penso a cosa succederebbe se all'improvviso sapeste cosa mi passa per la testa. Penso a cosa penseresti tu, se sapessi i miei pensieri. Immagino che soffriresti. Ma io cosa posso farci? Sento che lentamente mi sto allontanando, ma io non ho davvero fatto niente perché ciò accadesse. Tu sei lontano e non mi guardi, e ti ricordi di me quando è troppo tardi. Io non voglio soffrire e basta.
Io quella cosa la cerco ancora, io ci credo ancora, e se tu hai smesso di cercare non è affar mio.
La notte è lunga.
Mi ritrovo a farfugliare preghiere insensate.
La notte è lunga e piove ancora.
Aspetto solo un suo gesto.


Tuesday, August 20

della salita e della paura, a volte



Perché la strada ci fa paura?
Ti prende uno strano timore sulle salite che non danno tregua. Perché sei in trappola. Tu, la riga bianca che scorre lenta e rugosa, e un silenzio irreale. Particolari che in macchina non vedresti mai, ora possono essere fonte di piacevole distrazione dalla fatica continua.
La strada si muove lenta, improvvisamente la velocita si abbassa e puoi osservare sassolini, detriti, un bruco che attraversa incurante della tua sofferenza e del pericolo. A tratti provi il vago desiderio di fuggire.
Ma la liberta' delle moto che ti sfrecciano a fianco non è per te. Non ora. Mentre loro scompaiono dietro a una curva, tu sei inchiodato a questa strada e devi uscirne con le tue gambe.
Sono interessanti e istruttive, le salite che non danno tregua.  Ti perdi e torni in te, tutte le volte. In quel limbo che sta nel mezzo, accade veramente di tutto. Impari una serie di cose, a dosare le forze se riesci, a scacciare i pensieri cattivi, a trovare un precario equilibrio. Ti fai domande, pensi a chi ce la fa e a chi non ce l'ha fatta, e a volte ti disperi, e, alla fine, in cima sei una persona diversa.
Oggi è accaduto che non avevo più paura. Ho pensato che potevo farcela senza soffrire. Oggi ogni cosa si è sciolta sull'asfalto liscio. Nella strada che si innalzava davanti a me come una lama accecante di sole non ho visto pericolo. Il profumo dei pini, il colore del bosco nel pieno dell'estate, la penombra buia tra gli alberi accanto alla strada erano parte di un tutto finalmente amico, in cui io mi inserivo senza paura e senza scosse, senza quella fatica  insensata dei primi giorni. Accadeva anzi che proprio dalle piccole cose tutt'intorno riuscissi a trarre la forza necessaria per continuare. 
Cosa significa tutto questo?
Nulla, davvero. Quando quel limbo finisce, tutto torna come prima. La strada è di nuovo piana, scende, la fatica è lontana, la riga bianca è un serpente rapidissimo dai contorni sfumati. Senti in te una nuova forza, perché oggi ce l’hai fatta. Ma lei tornerà ogni volta e ti farà soffrire, e ogni volta in un modo diverso. Ma ora che è finita ti illudi di essere al sicuro.
 Tutto quello che ho detto ha senso solo sulla salita. È un mondo a sè in cui valgono regole e leggi di movimento altrove sconosciute. Quando sei lontano, rischi di dimenticare la sua voce, che ti parlava in quegli attimi di sofferenza. Lei è tutto, perché ha in se' ogni risposta.
Che ne sara' di noi, quando non avremo più strade da scalare?
Che ne sara' di noi, quando non riusciremo più a replicare quella sensazione?
E che accadra', quando non potremo più perderci e ritrovarci, sempre di nuovo, sulla stessa salita?

Tuesday, August 6

informazione di servizio


Eccoci! Vi sarete chiesti che fine avessi fatto, non è così? Che fine ha fatto la mia urgenza di parlare, parlarne, comunicare la mia insofferenza verso il mondo.  Invece niente. Nessuna voce, nessun lamento e nessun grido.

Silenzio.

Oh, ma vi assicuro che quel che conta c’è ancora, è tutto dentro. Lo sento rivoltarsi, contorcersi dentro di me come un figlio che vorrebbe veder la luce. Un figlio che non esiste. Senza occhi né bocca. Ma lui è lì e devo liberarmene. È bello, per una volta parlare da sola. È strana, questa mia trasformazione. Non sono più sola, adesso; in verità non riesco a capire cosa mi succede, o forse un poco di comprensione sta iniziando solo ora; sono letteralmente in balia degli eventi.  Giorni e cose, giorni pieni di vita che solo un anno fa desideravo ardentemente senza mai vederli, ora si accavallano, si susseguono, si accatastano letteralmente l’uno sull’altro senza che io riesca a coglierne appieno il senso e la meraviglia. Allo stesso modo, non riesco più a concentrare l’attenzione sulle cose che mi fanno soffrire e mi infastidiscono, oppure semplicemente su quelle che mi colpiscono. Prima era così facile, farsi sconvolgere dalle cose, dagli eventi, anche solo dalle piccole ispirazioni e illuminazioni di cui erano costellati i miei giorni, sebbene quei giorni, a ripensarci oggi, fossero miseri e vuoti in confronto a ora. Eppure, io avevo qualcosa in più. Ero proprio io. Ora mi sento come sdoppiata, perché ci sono io e c’è lui e poi ci sono io con lui. E arriviamo quindi a tre, la cosa si complica.

Cara la mia KK, lei deve imparare una cosa che la salverà la vita nei momenti bui. Lei deve imparare a credere nella sua propria FORZA. Sa cosa significa? Devo proprio essere io a spiegarglielo? Ebbene, la sua forza è quella che le ha permesso di buttarsi nelle sfide. Di continuare a pedalare anche quando sembrava impossibile. Quante volte le cose le sono sembrate impossibili? E quante volte, con la forza e la costanza, ha superato muri insormontabili? Quanti di quei muri sono ora dietro le sue spalle? Li conti, li ricordi uno per uno, ne rammenti la metamorfosi che lei, e solo lei, è stata capace di imprimervi. Questa cosa, è la sua forza.


Sagge parole. Ha in effetti colto nel segno. Troppe volte mi sento svuotata. Lui mi fa sentire così, ma immagino che una parte della questione sia il naturale esito dell’incontro, finalmente, con gli Altri. Da sola era tutto più logico e semplice. Ma non è possibile generalizzare. In ogni caso, dobbiamo continuare il discorso di prima. Quello sdoppiamento mi causa non pochi problemi. È davvero una cosa che non riesco a comprendere. Qualcosa dentro di me ha smesso di funzionare; sono come perennemente distratta. Non riesco a focalizzare la mia esistenza e il suo possibile sviluppo futuro. Sto qui e vivo, semplicemente. Mi godo anche il fatto di poter vedere dei risultati in tutte le mie faticate in bici, a piedi e con gli sci. Prima era come girare sulla ruota del criceto. È successo, ad un certo punto di molti anni fa, che il mio corpo ha smesso di rispondere.  Soffriva e basta. Non c’era allenamento, non c’era avanzamento. Stanchezza continua, a cui mi ero abituata. Pensavo di essere così. La cosa deve aver avuto degli effetti psicologici sulla mia già problematica persona, perché alla fine credevo proprio che fosse un problema mio. Ricordo innumerevoli volte in cui ho dovuto arrendermi perché le gambe non mi reggevano oltre. Ricordo di aver guardato in alto e poi in basso, su una distesa di sassi, e di essere stata lì un po’ con le mani sulle ginocchia, a sentire il sudore correre lungo la schiena e sulle tempie, e da lì andare a impastare gli occhi. A ripensarci adesso, senza voler esagerare, tutte quelle volte in cui mi sono fermata non erano altro che piccole, microscopiche sconfitte. Una dopo l’altra, giorno dopo giorno. Questo non potermi fidare del mio corpo, non poter sapere se resisterà e quanto, mi toglieva fiducia, distruggeva l’immagine di me stessa, mi metteva ogni volta di fronte al mio senso di debolezza. Chissà il mio corpo, la sua povera carne e muscoli e ossa, quanto stress ha subito in  anni di anemia. Chissà la mia testa, dopo anni di debolezza, come deve sentirsi. Oggi sto bene. Niente più stanchezza. Soffro solo quando lo dico io, e poche altre volte. Ma la mia testa è rimasta a tratti debole. Non si fida. A volte ride di me, quando non riesco a spingere sui pedali come vorrei. A volte ride di me e basta, allora io accendo la musica e vado da un’altra parte, finchè la sua voce e la mia voce non le sento più.



Gavia 1988