Friday, April 23

per ora non ancora tuttavia in qualsiasi momento


Stavo cercando qualcosa sul corso del professore ed è saltata fuori questa pagina.

E’ la cronaca di un giornale. Due anni fa circa. A uno col suo stesso cognome è successo qualcosa.

Non è quello che stavo cercando, e sarà una coincidenza, uno che si chiama come lui, così torno indietro e guardo quello che mi serve, cose per il corso, libri da studiare, qualche informazione. Ma di nuovo vado a finire sulla pagina di prima. Il titolo dice che qualcuno è caduto in un dirupo (dicono sempre così, anche quando si tratta di un semplice pendio ripido) e l’hanno trovato solo giorni dopo, troppo tardi. Non era una montagna particolarmente conosciuta. Neanche tanto alta. Mi metto a pensare che forse la vedo anche, quando dal pora guardo giù verso il lago. È pieno di montagne senza nome, con una vegetazione strana, incoerente. Arbusti a picco verso valle. Non ci si pensa mai, se ci siano strade per salirci. O forse semplicemente, e molto probabilmente, sono io che non le conosco. Non conosciamo la valle di là. Non ce ne occupiamo più di tanto. Il lago è bello da vedere d’inverno. Ha un colore argenteo e freddo. L’acqua è increspata leggermente, solcata da correnti sconosciute, tagliata da lame di sole che la rendono abbagliante anche a distanza. Il lago è silenzioso. L’acqua sembra muoversi ipercettibilmente, ma non fa alcun rumore.

Così, su questa montagna senza nome ma che io ho sicuramente visto, e che si trova incredibilmente vicino a me da qualche parte là fuori, è successo qualcosa a qualcuno con il suo stesso cognome. Continuo a leggere e qualcosa dentro di me ha già capito tutto. Il giornale dice (lo dicono sempre) che era prudente ed esperto. Poi aggiunge che aveva solo 23 anni. Era andato a fare un giro, non tornava e così hanno dato l’allarme. In fondo c’era scritto che anche il papà si era subito offerto di partecipare alle ricerche. Diceva che il papà è un eminente studioso. Un professore della statale.

* * *

Ci sono cose che tendono a schiacciarmi. Succede quando non ho abbastanza difese. Credo sia come quando prendi l’influenza.

Ci sono cose che tendono a schiacciarmi; cose che si portano dietro troppo; così scopro che neanche stare qui a sentire Petto che parla di Cassirer e di teoremi e di scienza e forse nemmeno pensa al suo lago che pure c’è, ed è lo stesso che io guardo dall’alto immerso nella nebbia, nemmeno questo si può più fare; nemmeno questo è senza dolore, perchè gli occhi di Petto lo dicono, che alla fine nè Cassirer nè la scienza risolvono niente, perchè le parole non possono dire quello che io so e lui sa e gli altri forse no.

Quello che ho scoperto, per caso, cercando su internet il suo nome.

E sono sicura che lui ora direbbe, lucido e coerente, che quello, qui e ora, non c’entra; che queste sue parole adesso hanno un senso e sono del tutto legittime, perchè lui sta facendo lezione, ed è qui per questo come lo siamo noi.

In realtà tutto questo, ogni cosa che dice, si porta dietro l’impossibilità di dire quella cosa, e l’impossibilità di tutto il suo discorso di darci un qualche sollievo.

Non c’è resistenza. Non c’è redenzione.

Forse vorrebbe correre fuori, lo penso perchè forse è quello che vorrei fare io, invece se ne sta lì a spiegare e ogni tanto perde lo sguardo al di là delle enormi finestre.

Non resisto a star qui a guardarlo. Eppure lui ci riesce, a guardare noi.

Non so a che prezzo, ma ci riesce.

Il problema sono le pause. Nelle pause, quando finisce una frase e sta in silenzio a pensare la successiva, e noi siamo chini sul foglio, con la penna che finisce come in automatico le frasi e rimane così, in attesa, davanti alla pagina ancora bianca; succede allora che c’è un momento, quando alziamo la testa per vedere che succede, per vedere come mai non sentiamo più nessuna voce, accade in questo secondo che noi percepiamo la vertigine.

È lì.

E’ lì in piedi, con le mani strette attorno al microfono, si staglia contro la parete di legno scuro mentre fissa un punto indefinito in fondo all’aula, oltre le nostre teste che ora sono volti in attesa.

Così, a tratti mi trovo ad essere spaventata da questa cosa. Mi rimetto a fissare il foglio e cerco di recuperare il filo, o provo a rileggere le parole contorte e incomprensibili che ho appena scritto per far passare questi secondi infiniti ma non c’è niente da fare, sono letteralmente paralizzata, perchè è in questi attimi vuoti, chiari e trasparenti che tutte le altre cose sembrano crollare dall’alto verso di noi, minacciano di schiacciarmi, e sono tutte della stessa specie, sono le cose cattive le cose che non dovrebbero succedere le cose possibili e quelle necessarie, e sono qui concentrate in questo silenzio e negli occhi di Petto, una mente tra le menti, che ora però non basta; e di quella mente le parole, capaci di definizioni ardite, di pura conoscenza, capaci di senso, sembrano ora soffocate dal riso beffardo delle cose, che accadono in silenzio, che sono già accadute, che non si possono fermare, e che si annunciano perchè verranno; e verranno, come un ladro nella notte.

Le puoi riconoscere una ad una nel suo sorriso spezzato, nel suo sguardo ora inspiegabilmente smarrito come quando qualcosa che credevi avere in pugno ti sfugge dalle mani.

Durano veramente il tempo di un secondo, queste pause, ma è abbastanza per gettarmi nel panico finchè non lo sento di nuovo parlare. Come se sentirlo parlare risolvesse qualcosa.

Oggi per una volta ho trovato, nel libro che stiamo leggendo, qualche parola sensata e qualche idea che mi pareva buona; ma non ho fatto in tempo a finire di comprenderle che lui subito si è messo a smontarle una per una, ha smontato il significato stesso di filosofia, ed era rabbioso, era cattivo, era come stanco per il troppo combattere, e sembrava non voler più sollevare gli occhi a guardar fuori, perchè ora li tiene puntati verso di noi, mentre attorciglia le mani come rampicanti attorno al microfono, lo tiene stretto e ci dice che un senso non c’è, e ha quel sorriso triste mentre lo dice, e ora nemmeno di Kant parla più, ci dice che neanche il fine c’è, perchè questa, questo mondo e questa vita, è la cosa più insensata in cui siamo capitati.

* * *

Petto sorride quando passa a fatica in mezzo a noi ragazzi ammassati, si fa strada nel corridoio troppo stretto con il suo sguardo furbo. È passato molto tempo dai titoli di giornale trovati per caso e dalle lezioni e da quella strana sensazione che ci prende quando non sentiamo più la voce. Mesi, sono passati. Il suo corso è finito. Cose nuove si sono messe in mezzo a noi. Cose.

Oggi è l’appello di un esame. Siamo in troppi e non sentiamo i nomi che un prof, là in fondo, sta dicendo in tono basso, troppo flebile per noi.

Ma Petto, quanta gente c’è qui, eppure passi senza dir niente, e mentre passi vedi che non sono altro che ragazzi ammassati e ognuno ha la sua vita e le sue cose, ma ora sono tutti qui, tutti salvi.

Perchè loro qui? Perchè loro ?

Eppure è così facile, essere salvi. Può essere facile quanto lo è ora camminare tra noi con quel sorriso e quegli occhi azzurro ghiaccio che non so comprendere ma che hanno dietro un mondo in cui, inspiegabilmente per me, non c’è traccia di odio.

Davvero non so cosa passi per quella mente, Petto, ma so cosa passa per la mia, che di grandi cose non sa niente e non capisce la fisica e si perde dietro a cose lontane e intuizioni improvvise.

Perchè noi siamo qui? Perchè siamo in tanti, e perchè siamo salvi?

E perchè, perchè lui no?

In tutta questa gente, tra tutti questi volti, qualcuno gli somiglierà; e tuttavia in ogni corridoio, e aula affollata, ovunque entrerai ci saranno ragazzi della sua età, ragazzi come lui, ma lui non ci sarà. Dietro ogni angolo, oltre ogni porta chiusa, accendendo la luce in una stanza buia, lui non sarà là.

Tutto questo e molto altro mi ha detto quello sguardo, mentre noi siamo qui e siamo in tanti e siamo salvi e nessuno di noi è lui, nessuno di noi potrà mai esserlo benchè siamo in tanti, e siamo ragazzi, e a logica poteva esserci anche lui qui tra noi, a rigore direbbe qualcuno, ma forse non c’è nessun rigore e nessuna logica, perchè per quanto fosse possibile e semplice e facile, lui no, lui non si è salvato.

Petto, questa cosa che ora ci assale

non ha un nome, e se ce l’ha noi non lo conosciamo

Ma il terrore che ora ci prende

È come è il cielo, calmo nella notte

Dolore nero punteggiato di stelle

Eppure i nostri occhi ancora si incrociano.

Beffardi.

Sembrano così ignari.

Sono azzurri

Il dolore è tutto dentro.

* * *

Ci sono dei momenti, in cui tutto si concentra. Ma un giorno guarderai lontano e tutto se ne sarà andato. I giorni non hanno colpa. Gli altri non hanno colpa. Questi attimi sono innocenti, scorrono come hanno sempre fatto, vengono riempiti di azioni, coincidenze, scontri e incontri; sono io che ci passo in mezzo a rimanere colpita. Sono io, la causa. Ci sono attimi in cui, improvvisamente, tutto si concentra alla massima potenza, tutto sembra avere dentro di sè un fine che ogni cosa raccoglie e ordina a suo piacimento. Io ci passo in mezzo e semplicemente vengo sopraffatta. Ogni cosa ha il suo significato. La marea di significati mi arrivano addosso come un’onda, e io sto come si sta sulla sabbia nel tramonto arancione, a sentire l’onda che mi scuote e mi sposta, sposta il mio corpo sdraiato e immobile come un tronco portato dal mare, mentre io guardo il cielo, meraviglioso, pensando a quel giorno, in cui non ci sarà che calma, in cui le lacrime saranno felicità che lava il viso, e all’orizzonte si potrà slanciare ancora una volta le mani senza paura.