Tuesday, October 23

bambini a ginevra



Credo sia tempo di dire qualcosa. Non possono mettersi a sparare musica fuori dalla mia finestra a quest’ora  e pretendere che io non abbia niente da dire. Nessuno può pensare che io non abbia da dire.

Parliamone. Mi parli della sua infanzia.

Calma, calma, tutto questo mi pare troppo veloce, tutto insieme, deve capire che non riesco a seguire bene il corso dei miei pensieri.

Da dove partiamo?

Partiamo dalla musica. Ora mi fanno innervosire, non è ancora sera, non è esattamente sera, c’è luce dannazione, ma loro sono là e la musica rimbomba, e molta gente accorre, parcheggia scende e si incammina verso l’enorme tendone, sono famiglie (non è una parola abusata “famiglia”? non è sdolcinata come parola? Eppure in qualche modo si deve parlare…), insomma bambini con magliette e mamme con pantaloncini e altre cose, ma il problema centrale è che sotto il tendone ci sono suoni sconnessi, forzatamente allegri, come se per la felicità, come se per sentirsi vivi, bastasse un ritmo incalzante, così veloce da riempire ogni spazio, ogni tuo spazio, entra e pervade ognuno dei piccoli spaziettini di cui siamo fatti e così, solo così, ci sentiamo pieni. Non è così? È bene che gli spaziettini siano sempre pieni, e contigui, uno a fianco all’altro senza soluzione di continuità, in modo che la serata passi liscia liscia, e perché più tardi si possa uscire dal tendone nella notte umida e calda, e tornare alla macchina. Io sarò qui. Sentirò voci, e portiere sbattere. E macchine partire. La notte è calda, la notte è nera, e una marea di stelle stanno in silenzio sopra il tendone, ma sono lontane e invisibili, perchè l’afa intrappola tutti quaggiù. Perché non possiamo fuggire? Le stelle non si vedono,  e le auto se ne vanno ora. Senti il motore, senti che si allontanano, silenzio.  Siete contenti, ora? Che effetto fa, non sentire più niente? Che cosa succederà, ai nostri spaziettini, se nessuna musica e nessun ritmo allegro li riempirà rendendoci pieni, e completi, e sazi?

Niente di male, KK, niente di male accadrà. Deve smettere di pensare che succederà qualcosa di strano, o liberatorio, o apocalittico, quando le persone intorno a lei si renderanno conto di un inganno, o degli inganni, di cui da sempre sono preda. Per altro non deve escludere, cara KK, che un inganno sia qualcosa di piacevole, e desiderabile, e insomma in ultima istanza sia un male minore.  

Questo me lo hanno già detto. Questo me lo sono già detta troppe volte. Non ho più voglia di ascoltare questi sproloqui, ma perché non posso dire due cose sulla musica odiosa e su un tendone pieno di gente che mangia su tavoli traballanti, e sugli odori di grigliata, e il fumo grigioblù che esce dai lati del tendone e bambini che corrono e piattini di plastica con avanzi scarnificati di costine, perché non posso parlare di questo? E dei suddetti piatti che essendo troppo leggeri non si riescono a tenere in mano decentemente, e perciò molti cedono e perciò molte costine ancora intatte sono ora nell’erba calpestata del campo sportivo, a testa in giù, con il piattino suddetto e maledetto messo sopra a coprire lo scempio. E dei bicchieri di plastica bianchi che immancabilmente si crepano su un lato, vogliamo parlare? E di quanti di essi giacciono in terra schiacciati e orribilmente aperti e squarciati, e delle risa tutt’intorno, e dei ragazzini tirati a lucido che scrivono con la sigaretta il loro nome in svariati oggetti di plastica, con fare spavaldo, e delle giovinette che ridacchiano e si lanciano sguardi mielosi tutt’intorno, vogliamo parlarne? Non capisco perché mai non dovrei farmi domande, su tutto ciò. Ho già dato, dannazione. Non ne posso più di questi ragazzini idioti.

Che c’è che non va, nei bicchieri di plastica? Che cosa di essi l’ha turbata? E poi, che problemi ha, con i “ragazzini idioti”, KK? Del resto si tratta di comportamenti fisiologici, legati ad una fase della crescita. Non era forse anche lei, una di quelle ragazzine mielose?

Allora chiariamo una cosa. Cosa diavolo ne sappiamo di cosa è fisiologico. Lei lo sa che il fisiologico è definito dal patologico? Lei sa che una cosa è normale perché non è malata? Ma il confine dove sta? Lei capirà che questa cosa ha evidenti problemi fondazionali. C’è un circolo. Una petitio principii. Lei mi capisce, no? Che cosa è fisiologico?
Sto cominciando ad avere qualche problema. Non voglio incastrarmi in cose filosofiche, visto che è quello che faccio tutto il giorno, per cui tralasciamo questo discorso. In secondo luogo (visto che lei mi costringe a parlare in modo orrendamente forbito) no no e no, non credo proprio di esser stata una di quelle ragazzine. O meglio, sì, ma ho talmente odiato la cosa che l’esperienza non si è ripetuta.

Ma cosa ne sa? Ma cosa mi racconta? Lei SA che è stata una ragazzina, e sa che ha avuto desideri, speranze, attenzioni, verso i suoi coetanei. Lei ha amato e odiato, ma ha soprattutto amato. Ha sperato e desiderato, era VIVA, non è così?

Ma certo, ma certo. Questo mi fa venire in mente che devo aver sbagliato tutto nella mia descrizione. O più probabilmente la mia mente mi inganna, vuole tenermi all’oscuro di alcune cose.

Noioso. Molto noioso. Da quasi cent’anni ormai sappiamo che la mente ci tiene all’oscuro di buona parte della nostra vita psichica.  

Sì. Questo è un altro problema. Tutto questo è noioso. In ogni caso, sì sì, ammetto di esser stata quella ragazzina. Non mielosa però.

Su, sia ragionevole.

Non mielosa, ribadisco. Insomma avevo il mio personale modo di essere, e basta. E comunque ho sempre odiato i ragazzini spavaldi, i ragazzini che fumano come se lo facessero da una vita, quando la loro piccola e inutile vita è appena iniziata, ma via così, come se fumassimo dall’asilo, quando il massimo che potevano fare era imitare i grandi con le sigarette di cioccolato (un cioccolato che sapeva di carta, dalla consistenza senza senso, granulosa, che tuttavia ho sempre trovato buonissimo).

Bene, ora non so più perché mai avrò fatto questo discorso. La verità è che una tristezza strana, travestita da rivelazione, felicità camuffata, mi è venuta incontro stasera. Quelli-che-non-ce-l’hanno-fatta mi sono tornati alla mente assieme a una stilettata di dolore misto, colorato, vibrante, e il tutto mi ha spinto a dire qualcosa. Improvvisamente ho paura che molte cose possano perdersi per sempre. Ogni giorno perdo attimi e la sera me li ricordo uno a uno ma mi dico che non importa. Però è così che passa il tempo, che non risolve un bel niente.

***

Questa musica che ascolto ora ha dentro un’attesa, di qualcosa di sconosciuto, di qualcosa che alla fine è doloroso ma ancora non sai cosa è o cosa sarà. Prendo in mano il disco e mi accorgo, dopo tanto tempo che non lo guardavo più, che la plastica è un po’ rovinata, e l’etichetta che c’è appiccicata sopra è appena ingiallita. Ma il disco non è vecchio. L’abbiamo preso qualche mese prima che io iniziassi il liceo. In certe canzoni riesco ancora a ricordare quella sensazione. Di non aver ancor incominciato il liceo. Sensazione di una cosa che stava cambiando. Ogni cosa sarebbe cambiata di lì a pochissimo. Era un’attesa fastidiosa, ma fastidiosa è un’aggiunta di oggi. In realtà aveva dentro qualcosa di speranzoso. A volte, nel bel mezzo di questo disco, sento chiaramente quell’attesa, vedo me stessa in auto seduta dietro, guardo fuori dal finestrino un cielo grigio perdersi oltre le montagne, che scorrono verso la pianura, diventano poco più che colline, e poi più niente, e io sto con la testa quasi contro il finestrino, con il discman in mano e le cuffie nelle orecchie. Il discman ha smesso di funzionare un giorno che non ricordo della quarta liceo. Prima di allora, molto era passato dalle sue cuffie. Una volta in una gita in umbria l’avevo prestato alla prof. Giovannelli. Si era sentita un intero disco dei  Coldplay guardando assorta il dolce paesaggio umbro fuori dai finestroni del pullman, e io ogni tanto le lanciavo uno sguardo e ammiravo la sua tranquillità, ed ero contenta che una piccola parte di essa fosse merito del mio discman. La mia inquietudine in quel momento era un poco sopita. Ma le gite scolastiche erano fonte di sofferenze continue. Ora voi avrete da dire sulla parola sofferenze. Lo capisco, insomma non erano sofferenze fisiche, o forse un po’ sì, ma non stavo male, non stavo morendo maledizione. Ma ho un ricordo chiaro, semplice e netto di alcuni momenti di grande insofferenza, cioè della sensazione di essere impotente davanti alla sofferenza, sofferenza causata dalla vista di cose varie, di dinamiche che avvenivano tra i miei compagni, di risa che con me non c’entravano niente, dalla sensazione di esser in mezzo a persone di cui non mi interessava molto e di essere in tanti e di essere nello stesso tempo assolutamente sola. Odiavo assai passare con il nostro rumoroso gregge in posti nuovi e belli e pieni di possibilità, e odiavo essere dentro quel gregge e non poterne uscire, e se loro fanno casino come fanno sempre gli italiani, anch’io sarò tra loro, anch’io sarò loro. Ma la cosa che più mi faceva andare in crisi nelle gite scolastiche era vedere posti nuovi, vedere le persone che vivevano là passeggiare per strada, andare in posta, e fare tutte le loro cose. Insomma vedere posti nuovi era collegato immediatamente, era tutt’uno, con la possibilità che anch’io avrei potuto vivere là, se solo avessi potuto uscire da quella fila di scolari, se solo avessi potuto….rimanere ultima della fila, e alla prima curva della strada fermarmi, e poi correre a perdifiato sul marciapiede nella direzione opposta, e girato un angolo sparire per sempre.

Questo accadde una volta a Ginevra. Era una gita autunnale, e con il mio discman e le cuffie e la musica avevo osservato le montagne avvicinarsi e diventare enormi, mentre mi dicevo che dovevo stare tranquilla perché nessuno lì conosceva le montagne come me, nessuno in quel pullman sarebbe mai sceso e corso nel bosco, nessuno sarebbe stato ore a vagare in mezzo ai pini odorando l’aria o guardando le nuvole. Stavo seriamente cominciando a sentirmi da schifo perché volevo essere in quel posto senza essere nel pullman e senza essere in gita. Invece le solite voci odiose continuavano a urlare e ridere sguaiatamente appena fuori dalle cuffie che avevo nelle orecchie.  Ma niente. Arrivammo a Ginevra senza che tutta la cosa riuscisse a sconvolgermi più di tanto. Mi ero raccontata un sacco di favole sul fatto che qualche mese dopo avrei sicuramente fatto qualcosa, avrei lasciato la scuola, sarei scappata da casa, sarei andata in Canada, e mentre passavamo il Gran San Bernardo tutto questo era già successo, e io stavo vivendo una meravigliosa e perfetta altra vita in British Columbia, dove tutto era al suo posto e non c’era bisogno di gite perché nessuna gita, nessun nuovo posto mi avrebbe fatto desiderare cose che non avessi già, nessun nuovo posto mi avrebbe fatto desiderare di cambiare, mai più.

Il problema fu quando arrivammo a Ginevra. Era una di quelle giornate limpide di autunno inoltrato, in cui il sole è tiepido e le foglie sono rosse e gialle, e il cielo è terso, gelato, perfetto, azzurro chiaro, con striature uniformi di bianco, tirate dal vento freddo.  L’aria era frizzante e sapeva di neve. Il posto era bello davvero. Per una volta una città non mi dispiaceva. Per un po’ comunque la mia testa continuava a vagare in pensieri contorti in cui io non ero io e presto sarei stata qualcun altro e presto sarei stata in un altro posto. Insomma mi ero autoconvinta di essere solo di passaggio, ma non nel senso che ero di passaggio in quella città, ma proprio che il mio essere io in quel momento era di passaggio, era una fastidiosa fase di transizione verso qualcos’altro non meglio specificato; a scuola, in gita, in pullman, in quell’istante in cui stavo nel pullman, io ero di passaggio; io non ero davvero io; eddai! Io non sono una di loro, dopotutto; io vedo tutto questo con occhi diversi; io odio tutto quello che sono e dove vivo e presto andrò da un’altra parte. Presto tutto cambierà. Questa cosa resse per un certo tempo, anche se vacillò quando sentii quell’inconfondibile odore di neve appena scesa dal pullman; quell’odore di legna bruciata che era tanto familiare fu una fitta improvvisa allo stomaco, una coltellata silenziosa. Ero quasi persa. La mia strategia di difesa faceva acqua da tutte le parti.  Tuttavia andai avanti un po’, concentrandomi per non pensare a niente.

La crisi fu quando vidi il lago. Il lago era grande, perfettamente cintato da file uguali di alberi, rossi e arancioni e gialli, e sotto di loro un pavimento di foglie colorate, e intorno al lago correva un viottolo asfaltato dove dei bambini andavano coi pattini, dei bambini svizzeri alle tre di pomeriggio pattinavano intorno al lago, ridevano, erano felici; il giorno stava per finire e loro sarebbero rientrati in una casetta svizzera, in una città che non puzza e dove l’aria sa di neve, e ogni tanto nelle vie puoi sentire il profumo di arrosto che non è come quello di casa, e il profumo di torta, e puoi fare tutto questo in un normale pomeriggio di un giorno di scuola di quegli stessi giorni di scuola che tu odi perché sono fondamentalmente sprecati, inutili, vuoti, perché tu non potrai mai pattinare intorno al lago il pomeriggio dopo la scuola.
I bambini sorridono, ignari di tutto questo delirio che la mia testa fabbrica a loro insaputa e ad insaputa di tutta la fila di miei compagni che avanza scomposta e se ne sbatte altamente dei bambini e del lago, e di tutte le mie malate considerazioni. I bambini che pattinavano intorno al lago è stata la crisi. Era il segno evidente, chiaro e limpido come quel cielo d’autunno, della mia maledetta sconfitta.  Dell’inconsistenza di tutti i miei progetti e piani per cambiare qualcosa, che non erano che castelli in aria. Era orrore, sofferenza, tristezza irrimediabile, era il tonfo sordo di una casa che crolla, del pavimento che si sfascia sotto i miei piedi. Continuai a camminare sul tappeto di foglie mentre il sole faceva strani giochi con l’acqua del lago, ma niente mi interessava più. Tutto era come era, io ero proprio io e non un personaggio di passaggio, io non ero altro che io, e se la cosa mi faceva schifo, bè, c’era poco da fare. Vorrei tornare indietro. Vorrei tornare…

Ora sono proprio io che cammino sul lungolago di Ginevra, sono sempre io che da fuori mi vedo camminare a testa bassa senza capire perché devo sentirmi così male, sono io che mi trascino dietro al mio gregge, sono io che non posso uscire dal gregge né da quella che è la mia attuale vita per pattinare sul lungolago, e i sogni infranti sono ora in mille pezzi scomposti, specchi che riflettono cose a caso, pezzi di progetti e desideri di un’altra vita in un altro posto, diversa, che ora non hanno più senso, anzi sembra che mi deridano per la mia ingenuità. Ahah! Guarda! I bambini giocano ancora, e tra poco rientreranno a casa, dalle finestre puoi vedere la luce gialla della cucina, è caldo dentro, e la cena quasi pronta. Cosa fai tu? Perché piagnucoli? Pensa a camminare dritto. Pensa a camminare dritto. Cammino dritto, gli occhi fissi sulle scarpe di chi cammina davanti a me. Devo concentrarmi per non cadere, perché sto seriamente per cadere giù. Mi guardo intorno in un attimo di disperazione e vedo chiaramente che non c’è via d’uscita. Dove vorresti andare? Non puoi far altro che camminar dritto.

A quest'ora, da qualche parte, i bambini giocano ancora. Io volevo essere uno di quei bambini. Volevo solo pattinare nelle giornate di sole, e aspettare l’inverno, e non sentire più quell’ansia per le cose a venire perché sapevo che non sarebbero state come volevo, sapevo che avrei dovuto sopportare di stare chiusa in casa, che avrei dovuto andare a scuola e stare in un posto che non avrei mai voluto. Volevo solo aspettare l’inverno, ma perché nessuno ha capito? Non volevo  fare del male a nessuno, perché nessuno ha capito?

Bambini, bambini! Cancellate il mio nome e la mia storia, bruciate i miei documenti e tutti i ricordi, sono inutili, sono corrotti, forse sono falsi. Nessuno venga a cercarmi, perché ora starò qui. Nessuno si ricordi di me perché io non ci sono più. Perché non posso essere anonima? Perché non si può cancellare tutto e partire daccapo? Bambini, bambini! Perché perché perché non posso essere una di voi?
Bambini, bambini! Perché perché perché non si può cancellare tutto e partire daccapo? Bambini, bambini! Quand’è quand’è quand’è che potrò essere una di voi?

fantasmi di ottobre



Domenica di ottobre, tiepida, azzurra, nitida e perfetta. Domenica di ottobre di quelle che anni fa erano dolorose  ma che io superavo ogni volta dicendomi che un giorno non lontano non lo sarebbero state più. E in effetti oggi non dovrebbero farmi più quell'effetto. Ma tant’è.

Ora non mi spiego cosa succede. Sto scrivendo per non affondare del tutto. Mi sembra di affogare.

Mi sento debole. È una cosa fisica. Mi sembra di non aver la forza di fare niente. È anche una cosa dentro di me. Perché devo sentirmi cosi? Mi mancano giorni molto più sensati, molto più pieni. Eppure se ci penso razionalmente, è chiaro che quei giorni torneranno. E quando succederà, riderò di queste scenate e di quei giorni inutili come oggi in cui tutto sembra perduto se non si fa qualcosa a dare un senso di compiutezza, o semplicemente un senso e basta. Cercherò di spiegare il problema come mi appare ora. Succede che io passo i miei giorni a denigrare la vita degli altri, la gente che se ne sta col golfino sulle spalle al passo mentre io arrivo in bici. Allora in quel momento posso ridere di loro e vedere chiaramente in loro l'immagine di ciò che io non voglio mai essere. Ma il giorno dopo, o forse no, diciamo un po' di giorni dopo, il corpo libero dagli effetti dell'endorfina, io senza bici e senza sforzo e senza concentrazione sono nulla, non ho letteralmente senso, fluttuo nell'aria senza direzione nè significato. E l'orrore mi prende quando in tutta questa confusione mi pare anche a me di essere come loro, come quelli che avevo tanto denigrato nei momenti esaltati e felici, quando avevo il corpo sotto l’effetto di quella meravigliosa chimica naturale. Questa identificazione improvvisa, che a pensarci seriamente è semplicemente irreale, perché è ovvio che io non sono così e mai lo sarò, riesce però lo stesso a dominare la mia vita nei giorni inutili come oggi.

Succede, penso, perché non riesco a vedere oltre le cose di oggi. Non dico di avere un progetto per chissà quale futuro lontano. Anche solo domani, non riesco a visualizzarlo e far sì che renda meno totale il fallimento che vedo realizzato oggi, qui e ora. Relativizzare è il segreto per non farsi sopraffare da questa sensazione assurda. È il segreto perché ciò che è solo una parte non venga improvvisamente preso per il tutto.    Le cose passano sempre, dovrei saperlo, dovrei averne esperienza, e sì, ne ho esperienza ma non me la ricordo più, non ricordo più niente di quando queste cose son successe nel passato, di tutti i giorni come questo di cui poi ho riso quando erano finalmente andati. Non ho memoria, in niente, non ricordo nessuna di tutte le cose che dovrebbero all'istante farmi sentire meglio. Non vedo il passato. Non vedo neanche domani. Sono così dannatamente stanca...non ho fame, ma mi sento debole, strana, vorrei partire. E fare qualcosa per convincermi che posso ancora rimediare; ma non ho letteralmente la forza fisica per farlo.

Neppure parlarne qui, scriverne, riesce ad alleviare questa cosa, riesce a farmi sentire meglio. È un'altra domenica di ottobre in cui cerco di trattenere i singhiozzi di un pianto a dirotto che non vuole lasciarmi in pace. È rabbia pura, sensazione di impotenza. Di non poter far niente per impedire che giorni come questo si ripetano uguali, ancora una volta. Anche se tutto è cambiato o meglio "tutto è cambiato", mettiamolo pure tra virgolette visto che sembra non sia cambiato proprio niente. Riesco a litigare con tutti gli aspetti della mia vita. Non me ne faccio passare una. Il punto vero qui, che poi forse è una parte della soluzione catartica che sto cercando, è che io non sopporto le cose che si ripetono. Divento pazza, non capisco più niente quando qualcosa che mi ero ripromessa di non vivere più immancabilmente succede di nuovo, uguale, e non all'improvviso ma con tutta la calma per vederlo arrivare da lontano, passarti davanti e succedere, semplicemente, davanti a te che anche stavolta non hai potuto far niente per impedirlo. Probabilmente è un residuo della mia vita adolescente, in cui letteralmente ogni attimo era perduto, capitava a volte che guardavo i giorni arrivare e andarsene sapendo esattamente che non sarebbe successo niente a cambiarne il corso, che io non avrei potuto farci niente, se non stare a osservarne i particolari, la nitidezza dei giorni di autunno, i riflessi e le foglie, il cielo alto e freddo sopra di me, osservare tutto questo da dietro un vetro, e immaginare, pensare, pensare forte forte a occhi chiusi sperando di svegliarmi da un’altra parte. È successo una volta che ricordo ancora come fosse ieri, e il ricordo mi provoca una specie di fitta. Ricordo che era fine settembre, il mio compleanno. Devo andare a scuola, ma io con la testa sono da tutt’altra parte. Prati dorati, da qualche parte. Nella realtà sono rannicchiata nel letto e vengono a chiamarmi perché mi devo alzare e andare a scuola. Un venerdì. A scuola dalle otto alle quattro. In autunno, alle quattro il giorno è già scappato via. Non voglio guardar fuori dalle tapparelle, ma vedo le lame di luce e riconosco le tonalità di un giorno di sole. Non voglio, non voglio vederlo. Sono altrove. Mi chiamano, forse urlano, forse no, perché alla fine è il mio compleanno. Non supererò mai questa cosa. Questa cosa torna tutte le volte che c’è un problema. Questa cosa riaffiora come uno scoglio nella bassa marea. Ma tant’è. Allora sono io rannicchiata nel letto, la testa altrove, la testa in una valle sconosciuta di mia invenzione, l’aria pulita dell’autunno e davanti una giornata che non sprecherai, che potrai vivere come vuoi, a cui potrai dare un nome e che potrai ricordare. Invece no. Devi andare. Devo andare. Ti chiamano. Mi chiamano. Mi alzo, non mi guardo in giro, sono uno zombie che non incrocia gli occhi di nessuno. Niente fuori mi interessa. Niente fuori è qualcosa che voglio. Semplicemente, qui e ora, questa non sono io. Scaccio con tutte le forze il pensiero che oggi passerà inesorabilmente e io non potrò far altro che stare a guardare. Osservare tutte le tonalità che il cielo e le foglie gialle degli alberi del cortile della scuola prenderanno durante ognuna delle ore di questa giornata. Sono veramente un genio perché ci riesco, riesco a non pensarci, mi alzo come uno zombie e come uno zombie esco di casa e guardo in terra per tutta la strada fino a scuola, e senza droga e senza alcol e senza niente riesco ad anestetizzare ogni mio impulso e desiderio. Ho passato gli anni del liceo a sperimentare modi per anestetizzarmi e non sentir niente quando le cose che non volevo vedere, che proprio non volevo, mi passavano davanti costringendomi a guardarle. Zombie sul banco di scuola, zombie a cui niente può far male, zombie che ha imparato a ignorare le cose cattive, a sopravvivere. Sono uno zombie che riesce a far passare indenne, pare, anche questo giorno di scuola che sembrava insopportabile. Cercando distrazioni in modo abbastanza disperato e trovandole sempre. Quindi, è successo che ancora in equilibrio, per quanto precario, sono tornata a casa e tutto sembrava normale. Mi sentivo quasi meglio, ora che la giornata, le sue parti migliori, le ore più splendenti e fonte di sofferenza, erano passate. Ma poi mi è tornata in mente la valle che avevo in testa la mattina, allora ho preso il computer e ho cercato le webcam di livigno. Volevo vedere com’era il 23 settembre a livigno. Che poteva essere uno dei tanti posti dove avrei voluto o potuto essere. Magari, se mi concentravo e lo volevo e ci pensavo forte forte forte, avrei potuto in qualche modo ritrovarmi là. Nella webcam era una giornata meravigliosa. Il sole del tardo pomeriggio aveva tutti i colori possibili. La valle era di tutti i colori possibili. Lontano si vedeva l’ombra blu scuro degli abeti. Delle persone sulla strada, una macchina, immobili nello scatto della webcam. Non è finito, questo 23 settembre. Quante cose si potrebbero fare, ancora, se solo…due passi nel sole della valle, due passi…se solo…se solo…
Non so che succede ma mi ritrovo con la testa sul tavolo e una fitta in pancia e un peso gigantesco in gola, mi stringe e non riesco a respirare bene, mi scoppia la testa, è rabbia pura, odio, sensazione di impotenza assoluta, stanchezza per questa maledetta presa in giro, per tutte le maledette volte in cui son stata presa in giro. Alzo gli occhi, lacrimoni salati si accalcano sul bordo delle ciglia, e vedo tutto come attraverso l’acqua, tremolante, la webcam sullo schermo del computer ride di me, nel suo angolo in alto a destra l’orario e la data ridono di me, e io, ancora una volta, non posso farci niente.  Dondola sul tavolo la mia testa vuota eppure pesante di rabbia e tristezza, dondola e tutto è così chiaro eppure assurdo, e tutto scorre senza poterlo fermare, e mi ritrovo a odiare la sensazione di sollievo data dal fatto che finalmente il giorno è finito, anche quella sensazione non serve, è una sconfitta, ride di me, ride di me ancora e ancora. 

Oggi è tutto passato. Niente più scuola, e niente più zombie. Io non so perché, ma queste cose mi sono rimaste dentro da allora e ogni tanto vengono fuori, quando un giorno qualunque di tanti anni dopo, come oggi, le cose si ripetono uguali, e anche se è davvero tutto diverso, io ancora una volta mi ritrovo a guardare un giorno passare, e finire. Ogni volta la storia finisce con la testa sul tavolo a sentire se la ventola del computer mi suggerisce una soluzione.

È cosi difficile da capire, di cosa ho bisogno? È cosi difficile da capire, che io ho bisogno di perdere me stessa e poi ritrovarmi di nuovo, ancora sulla stessa salita? Se non ho questa riconferma ogni giorno, ogni due giorni, se non riesco a buttare là un ostacolo e partire a testa bassa per superarlo, senza questa cosa io non sono niente, continuo a fluttuare nel nulla, sono un fantasma in una domenica di ottobre. La rabbia che ora mi divora, mi mangia letteralmente, la sento stringere, mordere dentro, lei mi conosce, lei è me, è il mio Io che ride di me che oggi no, non ce l'ho fatta. Che oggi ha perso di nuovo la riconferma di essere qualcosa di stabile, almeno per qualche ora chimica in cui la mente è annegata nelle endorfine e il corpo stanco, e per questo nessun demone viene a reclamare la mia testa, la mia tranquillità, il racconto della mia vita che ho faticosamente costruito. Soffro. Ma non è il senso comune di sofferenza. Non è fine a se stessa. È anche altro. Perché dopo di lei, tutto è meraviglioso, ha nuovo valore perché ogni cosa non è più lei, non è  sofferenza, non è fatica, ora sei in cima tutto è come un premio, e le ore di fatica concentrata, in cui senti il corpo cedere, chiamare aiuto, reclamare ossigeno, sono passate. È cosi difficile, capire che io devo perdermi e ritrovarmi sempre ancora, sempre di nuovo, perdermi nell'ombra della valle e alzare la testa e guardare la strada come una lama verticale di asfalto e sulla strada e l'asfalto lucido il riflesso accecante del sole e abbassare gli occhi, e la testa, e spingere e stringere i denti e sentire che tutto si perde...ma la strada e l'asfalto e il sole e i tornanti passano, lenti ma passano e in cima l'altro te stesso ti aspetta, il tuo fantasma che avevi lasciato in fondo ora è lassù e tu sei pronto a tornare in te, ritrovi il tuo Io sempre sfuggente e stavolta te lo attacchi addosso e lo tieni stretto, perché è stato così strano e terribile perdersi ed è ora così meraviglioso e fantastico ritrovarsi, e tutto ha più senso, tutto è prezioso, il mondo è più comprensibile e amico, quelle ore di concentrazione per dosare le forze fanno sì che ora tutto venga affrontato con la stessa attenzione concentrata, come se stessi camminando su una corda tesa. Ogni passo è misurato, pare perfetto, perché con te ora c'è quell'Io che sta in cima alla salita, quello che ti aspetta e torna in te solo quando sei cima, e quell'Io è stato perso e ritrovato tante volte, e per questo è la cosa più forte e piena e potente del mondo.