Thursday, May 28

cevedale







Molti muri sono crollati. Divieti, tabù, assurde regole sono infrante.
Appaiono, semplicemente, prive di significato. Totalmente arbitrarie.
In un giorno di aprile l’inverno è ritornato, e io ho provato una paura purissima, fredda e precisa come una lama; è l’immagine della mia debolezza di fronte al ghiaccio, che per una volta con me si diverte a giocare, che una volta di più riafferma il suo ruolo, il suo dominio, mi piega come una canna al vento.
Uno scenario mentale che ricordo come una distesa candida e pulita da tutto, da ogni preoccupazione e pensiero superfluo, per concentrarsi unicamente sul mio piccolo corpo che lentamente perde energia, sensibilità, calore, perde controllo; concentrarsi per recuperare le forze e aver salva la vita.
Sperimento un panico nuovo, che genera improvvisa concentrazione e che finalmente annulla tutto ciò che intorno e dentro di me si agita, immagini, ricordi, cause e conseguenze, legami, domande; seguire il filo di troppi pensieri è dispendioso ed inutile, ed è il corpo a decidere per me, è ancora una volta la natura che è in me a decidere di spegnere il cervello e dirottare l’energia verso qualcosa di utile, qualcosa che mi permetta, semplicemente, di conservarmi.
Dopo tutto questo, dopo la visione della mia mente libera da tutto, la vita torna quella di prima; ma pezzi di me sono cambiati per sempre.

Quando sto per scollinare verso la valle e capisco che è finita mi ritrovo con le lacrime agli occhi. Un pianto silenzioso, incontrollato e liberatorio, di gioia per la mia salvezza e di orrore per quelli che non ce l’hanno fatta. Attraverso gli occhi umidi non vedo bene dove metto i piedi, ma sembra tutto in ordine qui, il manto nevoso è uniforme, mi affido a pensieri del tutto casuali per non ricordarmi delle mille crepe che di colpo potrebbero inghiottirmi. Mi sento del tutto superflua e questo pensiero è di una chiarezza disarmante. Eppure ogni paura è svanita. Sento le mani pulsare di dolore mentre il sangue caldo ritorna a scorrervi, continuo a muoverle sotto due strati di guanti, si riprenderanno, anche il naso si riprenderà, tra poco sarà finita e tutto tornerà come prima; ma poi scorgo, lungo la cresta che guarda verso il Trentino, dei pezzi di legno sbucare dalla neve, dei resti rigidi come braccia puntate verso il cielo, in un’accusa senza parole; e chissà quante dita congelate, chissà quanto dolore e sofferenza, quanti giorni come questo solo cent’anni fa, e dopo questo pensiero io e le mie mani non siamo più nulla, io e il mio freddo non contiamo niente, fantasmi silenziosi sembrano osservarci mentre raggiungiamo la cresta, e dall’altra parte finalmente la valle, finalmente il sole, una via di fuga, niente più ghiaccio verde ma neve cotta dal sole, rocce laggiù in fondo, forme di vita che paiono amiche, la traccia che ci porterà a casa. Capisco che essere salvi non è nulla di scontato, e lo apprendo come fosse una verità logica, qualcuno sorride guardandoci passare, ci sono dei soldati sulla cresta e ci guardano incamminarci verso la salvezza, un sorriso triste, il sorriso amaro di chi sa, osservano la felicità del ritorno a loro preclusa per sempre mentre la valle ancora attende, e molte croci staranno ordinate sui prati, passeranno inverni, primavere, arriverà l’estate e con lei i temporali, niente ha più senso, la baracca rimane lì e i soldati pure, guardano giù, non hanno volto, e mentre mi lascio scivolare a valle ho quasi paura a fare le curve, ho quasi paura che tutto questo non sia giusto, mi appare chiaro che salvarsi è un privilegio e che non bisogna sprecarlo. Vorrei dire qualcosa ma resto in silenzio, la discesa verso la salvezza non può essere in nessun modo sguaiata, non può essere più di quel che è, vorrei essere felice ma non lo sono appieno, sento mille occhi osservarmi dalla baracca là in alto mentre lenta me ne allontano, e allora farfuglio ringraziamenti, al vento faccio promesse silenziose, a chi non ce l’ha fatta prometto di non dimenticare, prometto di raccontare, prometto di ricordare sempre delle volte in cui mi sono salvata, per avere la forza di salvarmi di nuovo. Ora l’aria è più calda, e il dolore alle mani diventa un sottofondo indistinto. L’aria è più respirabile. Compare l’immensa morena e una traccia che ne taglia la superficie costeggiando un’enorme caverna di ghiaccio. Mi lascio portare. Ringrazio tutto e tutti in ordine sparso, dagli sci ai guanti alla lana agli scarponi. Fisso un punto lontano e osservo la valle avvicinarsi, finalmente senza neve, con qualche larice spoglio, lontano, mentre la morena si esaurisce, la neve è marcia, incontriamo altri sciatori che sembrano ignari di tutto. A destra compare e scompare un rifugio. La fine della valle si avvicina sempre più. Arriva al termine. Respiro, mi volto a guardare indietro una sola e unica volta. Ma non è più tempo di guardare le cime e contarle, non oggi. Oggi sono state benevole. Abbasso lo sguardo. Ci metto una vita a togliermi lo zaino. Rimango nel parcheggio come un ebete, sento il sole che scotta sulla giacca, ma non tolgo nulla. Ogni oggetto e ogni cosa mi sembra nuova come se la vedessi per la prima volta. Dovrei mangiare e bere qualcosa, ma mi sembrano concetti nuovi. Bere una birra. Parole nuove, sensazioni nuove con cui essere cauti. Lontano, la montagna è bianchissima e accecante. Forse sorride.
I soldati vegliano sulle creste, presso la croce, il confine.
Dentro di me, altri confini si sono spostati per sempre.



Wednesday, May 20

ricerca



Che cosa mi manca?
Non ne ho idea ed entro nel supermarket. Sembra che sia pieno di persone come me. Sono stanche. A tratti sciupate. Chissà che faccia avrò io. Sotto le luci al neon nessuno pare interessarsene.
Stasera è accaduto in me qualche cosa. Sensazione di attesa e poi invece niente. Ferma al semaforo ho sbirciato nel bar oltre la strada. Nella luce tenue erano seduti in due. Sembravano felici. Sembravano un milione di cose e me ne ricordavano altrettante. Poi è venuto verde. Dietro il bancone era pieno di bottiglie scintillanti e bicchieri. Le persone erano solo sagome. Forse lui gli somigliava?
Forse io stavo cercando qualcuno?
Non lo so, non so neanche questo. La notte è scesa da poco e molte cose sono incerte.
Già sento gli occhi farsi pesanti e tristi, e assenti. Ma è arrivato il verde e sono partita.
Il bar era lo stesso di quest’estate, non è così? Quel giorno avevo guidato a fatica la bici fino a casa.
Non è più tempo per pensarci.

Ho bisogno di disciplina. Sono in balia delle cose. Era per dare una parvenza di ordine alla mia serata che sono entrata al supermarket. Eccole. Le Cose mi vengono incontro, ordinate e rassicuranti. Sono piene di possibilità. Le persone sono assenti. Fantasmi in cerca di oggetti. Cammino e a ogni passo mi sembra di fluttuare nell’aria. Atmosfera rarefatta. Freddo intorno all’immensa parete dei banchi frigo. Tristezza irrimediabile, mancanza di soluzioni che mi sovrasta e mi schiaccia. Incrocio sguardi. Mi sembrano smarriti.
Non è così evidentemente.
È così solo stasera, che i miei occhi sono tristi e pesanti e assenti. Vorrei comunicare qualcosa di positivo. Vorrei che qualcuno mi sfiorasse inavvertitamente col carrello e mi dicesse scusa, e allora io potrei sorridere e dire niente, si figuri. Invece non accade nulla. Un bambino che sembra straniero corre dal papà con in mano un giocattolo. Lui lo esamina attentamente, il bambino insiste. Il bambino piagnucola e il papà dice cosa è quello? Lo sai cosa è? Non è nulla. Il suono che fa la verità è dirompente.
Il bambino piange.
Quante volte nell’infanzia sembrava che il mondo stesse per finire. E invece guarda. Il mondo stava solo giocando il suo ruolo. E noi ancora pensavamo di poter fuggire. Lentamente ci siamo piegati. I bambini diventano adulti e camminano dritti nelle corsie, spingendo il carrello. Gli adulti sono già stanchi.
Sono entrata cercando qualcosa. Non l’ho trovata. Ma tornerò a casa e poi ritornerò qui, quando sentirò di averla persa di nuovo.
In fila alle casse mi prende una calma irreale. Le persone intorno rinunciano ad essere impazienti. Misurano i gesti per non fare troppa fatica. Una tipa davanti a me prende il coso per dividere la spesa e lo mette sul nastro tra la mia e la sua. Le dico grazie e sorrido. Mi sento meglio. Davanti a tutti c’è un signore tranquillissimo, sorridente e vestito con un pile scolorito e sporco di polvere e fieno. Ha degli stivali verdi di gomma, pantaloni blu non identificabili. Sembra vagamente un barbone, è magro, tranquillo e gentile. Sposta gli articoli che ha comprato dalla cassa a un banco poco più in là, li mette tutti in fila ordinatamente. Fa almeno tre viaggi, zoppicando e sorridendo, misurando ogni gesto. Non prende sacchetti perché metterà tutto in uno zaino vuoto che ha appoggiato in fondo al banco. Mentre va dalla cassa al bancone, dal parcheggio esterno un cagnolino segue ogni sua mossa fissandolo da dietro ai vetri.
Dopo un tempo infinito arriva il mio turno. Pago, riempio la mia borsa ed esco. Mi sento un po’ meglio ma durerà poco. Sono molto instabile. Cammino per il parcheggio e guardo all’interno quelli che ancora sono in fila alle casse. Sento il pianto di un cane, e mi accorgo che è quello di prima. Il signore con lo zaino è ancora all’interno; l’ha riempito con la spesa e sta ora cercando di caricarselo in spalla. Fa fatica. Da dietro i vetri, con la luce che illumina fin dove può il parcheggio buio, sembra di guardare uno spettacolo dentro un enorme televisore. Un film muto che io e il cane osserviamo senza esser visti. Lui è accucciato a terra e guaisce disperato, col muso dritto verso il padrone che si muove lento nel silenzio assoluto. Vorrebbe far qualcosa per lui. Nei suoi occhi umidi intuisco la presenza di un sentimento puro che nessuno di noi proverà mai.
Questa evidenza mi abbatte ancora di più.
Me ne vado senza capir nulla.
Entro in macchina e decido che stasera sarà un’altra sera persa.
Le persone mi appaiono come sono, tremendamente tristi. Forse, più semplicemente, mi appaiono come sono io in questo momento.
Sono pulite e profumate e hanno abiti decenti, ma nessun cagnolino piange nel parcheggio per loro.
Entro in macchina e accendo la radio, guardo le macchine sfrecciare sulla superstrada, le luci sulla montagna, le tracce invisibili del tramonto a ovest del cielo.

prigioni




Certi giorni mi sento bene. Rispetto a me, agli altri, e alle cose in generale. Mi guardo intorno e non ho nulla da chiedere. Certi giorni ho la sensazione potente e incancellabile di essere libera. Che le mie azioni verso di te, e verso di me, e le cose che voglio e vorrei, siano chiare come non mai.
Ma ognuno costruisce intorno a sè delle prigioni. E con la prigione intorno ce ne andiamo in giro, pensando che i nostri atti siano pienamente nostri, e che i nostri pensieri e la nostra mente siano liberi.
Forse è meglio non chiamare, chissà cosa penserà.
Forse è meglio non dir niente, altrimenti chissà.
Ognuno è circondato dalla gabbia della propria visione del mondo e dei rapporti con gli altri, e da quella delle categorie con cui ogni giorno ordinare un'esperienza che è sfuggente, mutevole, a tratti dolorosa.
Ognuno ha, per le proprie prigioni, un attaccamento ancestrale e profondo, inconscio, naturale solo in quanto autoconservativo; irrazionale quanto a esiti concreti.
Non le vedi, le sbarre invisibili? È accaduto tante di quelle volte, ricordi? Un tempo la prigione era molto più ampia intorno a te, le persone ti sfioravano appena, tu ti facevi avvicinare a fatica. Anche oggi accade: sorridi nella notte senza saper cosa dire. Abbassi gli occhi per non saper cosa fare. Ti appoggi alle sbarre e aspetti, mentre la folla intorno a te si muove, ognuna con la sua personale prigione.
Molte volte hai allungato le braccia e molte volte hai sfiorato mani protese verso di te, e hai pensato che la gabbia non ci fosse più. Ma lei c’è sempre, intorno a te, dentro di te, forse è una cosa sola col tuo essere, con la tua esistenza nel mondo. Immagino che ci sia molto da filtrare, nella faticosa esperienza dei rapporti con gli altri, e molto da cui difendersi. È necessario trovare un modo per non essere del tutto permeabili a quel che ci accade intorno, e alla potenziale sofferenza che sta dietro ogni contatto. La gabbia reclama uno statuto di utilità pubblica.
Così, accade che ci sono tante cose che ci precludiamo da soli, senza nemmeno bisogno che a farlo sia il caso.

D’altronde le sbarre sono un’interessante e comoda prospettiva, da cui guardare la propria e l’altrui vita, in attesa di qualcosa. 
Invece a volte salti fuori all’improvviso, dalla gabbia invisibile, o almeno così ti pare (in realtà lei se ne sta adagiata intorno a te come fosse un vestito comodo) e allora quella nuova libertà sembra addirittura irreale. Pensi che durerà per sempre perché dalle conquiste e dalle scoperte non si torna indietro uguali.
Ma qualche tempo dopo, in una sera autunnale fin troppo tranquilla, ti ritrovi di nuovo appoggiata alle sbarre, a guardare verso un fuori del tutto indefinito di cui non sai nulla tranne che non è il dentro dove ti trovi adesso. 
Fa buio presto e questa è una cosa che non ti piace. 
I giorni passano velocissimi e sono anche belli e intensi, ma a volte nemmeno questo ti piace. 
Vorresti saltar fuori di nuovo, ma forse non è il momento.