Thursday, November 13

in cima alla collina



KK vorrebbe che tutto durasse per sempre. Vorrebbe cristallizzare il mondo com’era da bambini. Invece no. Anche la vita felice è sofferenza. Chi ci ha dato il diritto di ridere? Eppure troviamo i momenti per farlo. Dimentichiamo volontariamente tutto il male che potrebbe distrarci e ci occupiamo d’altro. Quei momenti non durano granchè. Nessuna cosa dura, ma noi dietro a rincorrere. 
Una bella scoperta, le persone muoiono. Bisogna vendere la casa. Che ne sarà dei mobili? E dei cassetti con la biancheria? Tutte le cose intorno si impregnano di senso. Scacciarlo è impossibile. Nemmeno si può bruciar tutto. Finchè rimane qualcuno, a rimandare come uno specchio l’immagine degli altri che non ci sono più, gli oggetti continuano ad avere un senso. Quando non c’è più nessuno specchio, semplicemente non c’è più niente da vedere.


Un’estate di tanti anni fa, in Toscana, nella sera tiepida e profumata di campagna, i nonni giocavano a carte sul vialetto davanti a casa. La notte era tranquilla, sotto la luce arancione del lampione vedevo muoversi animaletti notturni. Si sentivano i grilli, e i rospi in qualche rivo d’acqua. La notte poteva non finire mai, come la fila di lampioni che illuminava la via in salita. Avanzando, il fascio di luce arancio si affievoliva fino a raggiungere quello spazio in penombra dove stava in agguato la notte; ma proprio lì, prontamente iniziava il lampione successivo. In cima alla salita, la strada finiva. L’ultimo lampione illuminava fin dove poteva, oltre c’era il buio, e un bosco nero, sibilante alla brezza della sera. Quella collina era il Poggio. Ora hanno costruito graziose villette, e da qualche parte là in alto una selva di ripetitori garantisce a tutti la visione del tg della sera. Quando la nonna era piccola, quella collina era un posto fuori dal paese dove nascondersi. C’era un podere. La nonna mi ha raccontato che quando dormivano tutti nella stalla, col buio pesto e il pavimento duro, la cosa più paurosa era uscire a fare pipì. Bisognava fare presto e stare attenti a non pestare delle serpi. In ogni caso, si sperava sempre di non incontrare dei tedeschi, che hanno quella parlata così cattiva. Questa cosa è rimasta addosso a molte persone dalla guerra. Per molti, ancora oggi, la lingua tedesca genera un terrore senza fine. Così, sessant’anni fa, la nonna se ne stava chiusa assieme a tutti gli altri, a sentire il rumore degli aerei che sganciavano bombe sulle dolci colline della val d’Orcia. Come cambiano le cose. Ora i tedeschi sono pacifici turisti con gli occhi azzurri e ridicoli sandali, che passeggiano ammirati per le stradine di Montalcino. Ogni volta, ogni maledetta volta, io scruto i loro occhi in cerca di qualcosa. Sono azzurro ghiaccio e non vi trovo niente. Sono azzurro ghiaccio e a volte sentendosi osservati accennano un sorriso. Gli pianto addosso i miei occhi neri e faccio domande silenziose. Nessuno risponde. Le rondini gridano nel cielo, tutto il resto è di una tranquillità disarmante. La primavera in Toscana è così abbagliante che i tedeschi saranno rimasti stupefatti, nell’aprile del ’45. La nonna mi ha raccontato di quando un americano aveva portato a loro bambini una tavoletta di cioccolato. La nonna aveva detto che era un ragazzo giovane e che aveva sorriso; e che era il primo soldato che vedevano che fosse attrezzato di tutto punto. Come cambiano le cose. La casa dei nonni che stava sulla collina, da cui si vedeva Montalcino, è stata venduta. Proprio davanti, dove prima era un prato incolto, ne hanno costruita un’altra che ostruisce la vista. Gli amici con cui i nonni giocavano a carte, non ci sono più. Il nonno non c’è più. Nella notte, sulla strada in salita, la fila di lampioni c’è ancora, ad illuminare la via deserta, finchè in cima non c’è improvvisamente il buio. Tutta la tranquillità di quella sera d’estate a giocare a carte, tutta la felicità dello stare lì con i nonni, tutta la mia e la nostra infanzia, è scomparsa nell’oscurità in cima alla collina. Voglio credere che sia solo nascosta, che sia solo invisibile ai miei occhi e che un giorno arriverò in cima alla strada e sarò capace di saltare nel buio. Negli occhi azzurri dei tedeschi non riesco a scorgere odio. Ora la luna piena mi guarda dalla finestra e sembra che se la rida alla grande. Della mia irrequietezza, non sembra curarsi. Domando invano dove fugge la felicità che credevamo di tenere così stretta in pugno. Ma la notte è così tranquilla, forse non è il caso di disturbare. Di quel che sarà di noi, nel buio in cima alla collina, nessuno può saper nulla. 

Tuesday, November 11

domande


Quando succedono le cose, io non ci sono mai. Dove sarà lei, adesso?
Anni fa, ricordo di essere stata svegliata nel cuore della notte dal citofono che suonava impazzito; qualcuno l’aveva incastrato, e io uscii in pigiama nella notte gelida di dicembre per farlo smettere. Le strade erano bianche di neve appena scesa. Saranno state le tre, guardai il cielo ed era pieno di stelle fredde e lucenti. Forse lui moriva allora. La mamma mi chiamò la mattina presto. Ero sveglia perché era domenica, e dovevo andare a sciare. Ero sveglia e seduta al tavolo della cucina con nessuna voglia di prepararmi e uscire. Risposi al telefono e la mamma disse che il nonno era morto.
Dov’era adesso? Disse che era successo la notte. Non c’era già più, quand’ero uscita nella strada deserta per il citofono? Perché uno scherzo proprio quella notte?
Parlai con la mamma e poi misi giù il telefono. La cucina era silenziosa, fredda, fuori era ancora buio. La giornata non aveva più senso. Tutto sarebbe continuato come se niente fosse, nel mondo là fuori. Ma io non sapevo dove fosse il nonno, e per questo ogni cosa divenne semplicemente assurda. Era tutto previsto, era tutto pronto. Ma anche questo pensiero non ha più valore. Chi c’era con lui in quel momento?
Avevo pensato contro la mia volontà alla morte in un pomeriggio di molti mesi prima. L’avevo pensata come un’eventualità possibile, come una possibilità che diventava improvvisamente concreta. Ero nel salotto della nonna e mangiavo rabbiosamente dei pistacchi mentre tutti erano in cucina a parlare. Quella scatola di latta è ancora nella credenza della nonna. Ora ci mette delle nocciole, o delle mandorle. Ogni volta che vado a cercare la scatola mi ricordo di quel pomeriggio. La mia razionalità aveva provato a prevedere tutto, a percorrere in anticipo le strade possibili per soffrire di meno qualora le possibilità si fossero avverate. Un lavoro faticoso e al limite della schizofrenia. Penso le cose prima in modo da essere pronta. Le domande senza risposta non erano considerate nel mio piano, perché fanno perdere tempo. E in tutte queste faccende, nonostante questo continuo pensare, alla fine sembro sempre assente.
Quando succedono le cose, io non ci sono mai. Ultimamente è stata la voce della mamma a darmi le notizie tristi. La sua voce per telefono. Invece una volta mi ha chiamato una signora che non conosco e piangendo mi ha detto che sua madre era molto grave e voleva dirlo a mia mamma; ma lei non c’era. Allora le parlai un po’ io. Ero appena tornata dalla bici e vagavo per la casa parlando con una signora sconosciuta, e lei parlava con me da chissà quale triste corridoio di ospedale. Misi giù il telefono, e dopo dieci minuti di riflessioni più svariate tornai alla vita di prima.
Per ora non ancora, tuttavia in qualsiasi momento. Questo è il senso del mio pensare. Ma quando le cose accadono, si torna daccapo.
Saranno andati a casa, ora. Una tristezza impossibile da scacciare impregna la casa. Lo faceva già da mesi. La nonna è in un letto in una camera lunga e stretta, con la finestra alle spalle. Tutto è bianco, compresi i suoi capelli. Le sue mani hanno dita lunghe e curate. In che stanza la metteranno? Dovrò dormire qui? E dove metteranno me? Attimi di terrore. Il pensiero va oltre la sua esistenza materiale, come fa sempre, ma stavolta non ho voglia di seguirlo. Chi verrà? Da dove entreranno? Bisognerà stringere le mani a tante persone. Bisognerà dire grazie ed essere commossi.
Ricordo un giorno di tanti anni fa, alle medie, in cui eravamo d’accordo con altri compagni di andare a dormire da uno di loro. Prima però i miei compagni passarono a fare le condoglianze a casa di una loro amica. Gli era morto il papà. Era caduto nel bosco e l’avevano trovato dopo una settimana. Tutta la storia mi terrorizzò. Me ne stavo impalata all’ingresso della casa piena di persone silenziose, e vedevo i miei compagni abbracciare uno ad uno la loro amica, e ricordo di aver pensato chiaramente quanto tutto ciò fosse lontano da me, quanto io fossi incapace di avvicinarmi in quel modo alle persone. Quella notte dormii malissimo su un materassino da mare nella camera sovraffollata ma piena di amici e risatine. Molte delle notti successive, nel mi letto comodo, mi svegliai in preda al terrore. Ero nel bosco e non potevo andarmene.
Che cosa accadrà, alle paure che non riesco a scacciare?
È bene circondarsi di persone. Ci sono troppe domande senza risposta. Quando sono da sola le sento tornare da me.
Ora saranno a casa. Chiameranno il dottore. Il dottore scriverà una dichiarazione su un foglio come è stato per il nonno. Quel foglio è ancora in un cassetto, in una busta di plastica. Esiste un foglio dove sarà scritta la mia morte? Esiste già? Quando lo produrranno? Questa cosa mi assilla ogni volta che rivedo la cartelletta di plastica. È una dichiarazione come un’altra. Un addetto del comune la compilerà al computer e poi andrà a mangiare un panino in pausa pranzo. Poi cosa accadrà? Chiameranno le pompe funebri. È un lavoro come un altro, non è vero? È tutto normale, quindi perché tutte queste domande?

Monday, November 10

risposte a un funerale



Tempo fa in questa stessa stanza c’erano la nonna e una signora, e parlavano sommessamente nella penombra. Le persiane erano sempre a metà e io mi chiedevo perché. Appena fuori, il lungo pomeriggio estivo è solo all’inizio. La stanza è così scura, così poco illuminata, chiusa. La nonna sta sprofondata nella poltrona. Ricordo il lento movimento che faceva per alzarsi. Il salotto è quasi buio, ha una moquette verde scuro e muri ocra, e sopra perline di legno scuro. Che giorno è oggi? Non ricordo, ma io devo avere vent’anni. Sono ancora una bambina, in realtà. Le cose del mondo mi toccano appena, provocano stilettate di consapevolezza che mi lasciano confusa. Sono in piedi, la nonna alla mia sinistra nella poltrona, ricordo di aver guardato davanti a me, oltre la signora che parlava, e di aver osservato il sole caldo stendersi sulla pietra del terrazzo, ma lo vedevo opaco attraverso i ricami delle tende; ricordo di aver intuito come quel giorno fosse una testimonianza di qualcosa. Poi vidi chiaramente ogni cosa e ogni parola scomparire nel nulla.


***


Oggi hanno cercato di darmi delle risposte. Non ci sono riusciti.
Sono entrata nella cappella camminando su ciottoli chiari e lisciati da milioni di passi, caldi di sole.
Ho cercato di ricordare le domande.
La mia debolezza era fin troppo evidente. Nessuna risposta sarà mai sufficiente perché la mia verità è sempre e solo domanda.
Una giornata splendente aspettava tutti noi, e aspetterà ancora, attenderà che ce ne siamo andati per continuare, in una infinita ripetizione priva di senso.
Nella penombra della cappella tutto procede regolare, sembra che il perfetto ordine del rito cancelli la realtà, la renda meno triste, la renda giusta in quanto conforme a regole.
Così non è.

"Purificami O Signore"

Non avevo previsto che si mettessero a cantare. Riemergo dalla cappella, basta salire due gradini ed ecco il sagrato abbagliante di sole, seguo questo corteo come ne ho seguiti altri, seguo questo corteo e il cielo è così limpido e azzurro, e la giornata così tiepida, e mi ricordo all’improvviso che tante altre volte non ce l’ho fatta a seguire il corteo, a essere presente, altri morti non ce l’ho proprio fatta a lasciarli andare; oggi tornano tutti, ognuno è qui con me, l’ingiustizia e l’assurdità di ogni cosa mi sovrastano ma senza schiacciarmi, lasciandomi libera di muovermi, osservare, pensare: e per potermi meglio abbattere in quel giorno in cui non avrò difese.
Mi sento leggera, il canto è così dolce e così vero e io sento di essere debole davanti a tutto. Abbasso gli occhi sui ciottoli colorati, lisi da milioni di passi, persone che c’erano e adesso non più, e a quei passi aggiungo i miei, una manciata, inutili, intorno a me le statue, i parapetti in pietra, le montagne lontane e nitide nell’aria pulita, milioni di passi anche su di loro, nei boschi, sulle strade assolate dei valichi alpini, sull’asfalto caldo intorno al lago, felicità che sembra infinita, e poi altri monti, e ognuna di queste cose è così ignara di tutto, così estranea, e mi rendo conto con una punta di orrore che questa giornata nel suo splendore potrà ripetersi all’infinito anche quando i miei passi non ci saranno più, e io dove sarò, allora? È adesso così chiaro come il tempo non abbia per loro alcun senso, e non l’ha nemmeno per noi, e se è così noi siamo solo ridicoli esseri che tanto si agitano per un nonnulla, che ridono e pontificano senza saper di cosa parlano.

"Sarò più bianco della neve"

A queste parole ero già in un’altra dimensione. L’assurdo diviene forma precisa e tagliente, dolorosa, una lama che taglia la nostra esistenza, e che senso ha il bianco, il puro, che senso ha la colpa, non vedi che basta una fuggevole visione dell’assurdo perché il resto della vita divenga senza senso? Vorrei piangere ora perché mi sembra che ci sia qualcosa di profondamente ingiusto in tutta questa storia. Ingiusto in partenza. Purificami forse vuole dire lasciami andare, lasciami tornare alla terra, alla natura, all’inanimato. 
Ma perché, perché dovrei purificarmi da una colpa? Non basta questa scena e questo destino, questa giornata di sole persa per sempre, a rendere dolorosa e assurda ogni cosa, una volta per tutte? 
Uscirai da una cappella in una bara di legno ben levigata, ben fatta, lucida come un mobile, e dentro tessuti fini immagino, e i tuoi vestiti migliori, e forse ti metteranno un rosario tra le dita fredde, e ti porteranno a spalle sul sagrato invaso dal sole, e il sole sarà così prepotente, così forte e caldo e meraviglioso e continuerà imperterrito, e tu che lo amavi così tanto non potrai farci nulla, e quelli che amavano te così tanto guarderanno a terra e cammineranno, altri passi e altri canti, volteranno lo sguardo verso la valle e penseranno di essere soli al mondo, ma poi gli passerà, e poi a te non importerà più nulla, starai dormendo un sonno nero e senza sogni, non è così?