Credo sia tempo di dire qualcosa. Non possono mettersi a
sparare musica fuori dalla mia finestra a quest’ora e pretendere che io non abbia niente da dire.
Nessuno può pensare che io non abbia da dire.
Parliamone. Mi parli
della sua infanzia.
Calma, calma, tutto questo mi pare troppo veloce, tutto
insieme, deve capire che non riesco a seguire bene il corso dei miei pensieri.
Da dove partiamo?
Partiamo dalla musica.
Ora mi fanno innervosire, non è ancora sera, non è esattamente sera, c’è luce
dannazione, ma loro sono là e la musica rimbomba, e molta gente accorre,
parcheggia scende e si incammina verso l’enorme tendone, sono famiglie (non è una parola abusata
“famiglia”? non è sdolcinata come parola? Eppure in qualche modo si deve
parlare…), insomma bambini con magliette e mamme con pantaloncini e altre cose,
ma il problema centrale è che sotto il tendone ci sono suoni sconnessi,
forzatamente allegri, come se per la felicità, come se per sentirsi vivi,
bastasse un ritmo incalzante, così veloce da riempire ogni spazio, ogni tuo spazio, entra e pervade ognuno dei
piccoli spaziettini di cui siamo fatti e così, solo così, ci sentiamo pieni. Non è così? È bene che gli
spaziettini siano sempre pieni, e contigui, uno a fianco all’altro senza
soluzione di continuità, in modo che la serata passi liscia liscia, e perché
più tardi si possa uscire dal tendone nella notte umida e calda, e tornare alla
macchina. Io sarò qui. Sentirò voci, e portiere sbattere. E macchine partire.
La notte è calda, la notte è nera, e una marea di stelle stanno in silenzio
sopra il tendone, ma sono lontane e invisibili, perchè l’afa intrappola tutti
quaggiù. Perché non possiamo fuggire? Le stelle non si vedono, e le auto se ne vanno ora. Senti il motore,
senti che si allontanano, silenzio. Siete
contenti, ora? Che effetto fa, non sentire più niente? Che cosa succederà, ai
nostri spaziettini, se nessuna musica e nessun ritmo allegro li riempirà
rendendoci pieni, e completi, e sazi?
Niente di male, KK, niente
di male accadrà. Deve smettere di pensare che succederà qualcosa di strano, o
liberatorio, o apocalittico, quando le persone intorno a lei si renderanno
conto di un inganno, o degli inganni, di cui da sempre sono preda. Per altro
non deve escludere, cara KK, che un inganno sia qualcosa di piacevole, e
desiderabile, e insomma in ultima istanza sia un male minore.
Questo me lo hanno già detto. Questo me lo sono già detta
troppe volte. Non ho più voglia di ascoltare questi sproloqui, ma perché non
posso dire due cose sulla musica odiosa e su un tendone pieno di gente che
mangia su tavoli traballanti, e sugli odori di grigliata, e il fumo grigioblù
che esce dai lati del tendone e bambini che corrono e piattini di plastica con
avanzi scarnificati di costine, perché non posso parlare di questo? E dei
suddetti piatti che essendo troppo leggeri non si riescono a tenere in mano
decentemente, e perciò molti cedono e perciò molte costine ancora intatte sono
ora nell’erba calpestata del campo sportivo, a testa in giù, con il piattino
suddetto e maledetto messo sopra a coprire lo scempio. E dei bicchieri di
plastica bianchi che immancabilmente si crepano su un lato, vogliamo parlare? E
di quanti di essi giacciono in terra schiacciati e orribilmente aperti e
squarciati, e delle risa tutt’intorno, e dei ragazzini tirati a lucido che
scrivono con la sigaretta il loro nome in svariati oggetti di plastica, con
fare spavaldo, e delle giovinette che ridacchiano e si lanciano sguardi mielosi
tutt’intorno, vogliamo parlarne? Non capisco perché mai non dovrei farmi
domande, su tutto ciò. Ho già dato, dannazione. Non ne posso più di questi
ragazzini idioti.
Che c’è che non va,
nei bicchieri di plastica? Che cosa di essi l’ha turbata? E poi, che problemi
ha, con i “ragazzini idioti”, KK? Del resto si tratta di comportamenti
fisiologici, legati ad una fase della crescita. Non era forse anche lei, una di
quelle ragazzine mielose?
Allora chiariamo una cosa. Cosa diavolo ne sappiamo di cosa
è fisiologico. Lei lo sa che il fisiologico è definito dal patologico? Lei sa
che una cosa è normale perché non è
malata? Ma il confine dove sta? Lei capirà che questa cosa ha evidenti problemi
fondazionali. C’è un circolo. Una petitio principii. Lei mi capisce, no? Che
cosa è fisiologico?
Sto cominciando ad avere qualche problema. Non voglio
incastrarmi in cose filosofiche, visto che è quello che faccio tutto il giorno,
per cui tralasciamo questo discorso. In secondo luogo (visto che lei mi
costringe a parlare in modo orrendamente forbito) no no e no, non credo proprio
di esser stata una di quelle ragazzine. O meglio, sì, ma ho talmente odiato la
cosa che l’esperienza non si è ripetuta.
Ma cosa ne sa? Ma cosa
mi racconta? Lei SA che è stata una ragazzina, e sa che ha avuto desideri,
speranze, attenzioni, verso i suoi coetanei. Lei ha amato e odiato, ma ha
soprattutto amato. Ha sperato e desiderato, era VIVA, non è così?
Ma certo, ma certo. Questo mi fa venire in mente che devo
aver sbagliato tutto nella mia descrizione. O più probabilmente la mia mente mi
inganna, vuole tenermi all’oscuro di alcune cose.
Noioso. Molto noioso.
Da quasi cent’anni ormai sappiamo che la mente ci tiene all’oscuro di buona
parte della nostra vita psichica.
Sì. Questo è un altro problema. Tutto questo è noioso. In
ogni caso, sì sì, ammetto di esser stata quella ragazzina. Non mielosa però.
Su, sia ragionevole.
Non mielosa, ribadisco. Insomma avevo il mio personale modo
di essere, e basta. E comunque ho sempre odiato i ragazzini spavaldi, i
ragazzini che fumano come se lo facessero da una vita, quando la loro piccola e
inutile vita è appena iniziata, ma via così, come se fumassimo dall’asilo,
quando il massimo che potevano fare era imitare i grandi con le sigarette di
cioccolato (un cioccolato che sapeva di carta, dalla consistenza senza senso,
granulosa, che tuttavia ho sempre trovato buonissimo).
Bene, ora non so più perché mai avrò fatto questo discorso.
La verità è che una tristezza strana, travestita da rivelazione, felicità
camuffata, mi è venuta incontro stasera. Quelli-che-non-ce-l’hanno-fatta mi
sono tornati alla mente assieme a una stilettata di dolore misto, colorato,
vibrante, e il tutto mi ha spinto a dire qualcosa. Improvvisamente ho paura che
molte cose possano perdersi per sempre. Ogni giorno perdo attimi e la sera me
li ricordo uno a uno ma mi dico che non importa. Però è così che passa il
tempo, che non risolve un bel niente.
***
Questa musica che ascolto ora ha dentro un’attesa, di
qualcosa di sconosciuto, di qualcosa che alla fine è doloroso ma ancora non sai
cosa è o cosa sarà. Prendo in mano il disco e mi accorgo, dopo tanto tempo che
non lo guardavo più, che la plastica è un po’ rovinata, e l’etichetta che c’è
appiccicata sopra è appena ingiallita. Ma il disco non è vecchio. L’abbiamo
preso qualche mese prima che io iniziassi il liceo. In certe canzoni riesco
ancora a ricordare quella sensazione. Di non aver ancor incominciato il liceo.
Sensazione di una cosa che stava cambiando. Ogni cosa sarebbe cambiata di lì a
pochissimo. Era un’attesa fastidiosa, ma fastidiosa
è un’aggiunta di oggi. In realtà aveva dentro qualcosa di speranzoso. A volte,
nel bel mezzo di questo disco, sento chiaramente quell’attesa, vedo me stessa
in auto seduta dietro, guardo fuori dal finestrino un cielo grigio perdersi
oltre le montagne, che scorrono verso la pianura, diventano poco più che
colline, e poi più niente, e io sto con la testa quasi contro il finestrino,
con il discman in mano e le cuffie nelle orecchie. Il discman ha smesso di
funzionare un giorno che non ricordo della quarta liceo. Prima di allora, molto
era passato dalle sue cuffie. Una volta in una gita in umbria l’avevo prestato
alla prof. Giovannelli. Si era sentita un intero disco dei Coldplay guardando assorta il dolce paesaggio
umbro fuori dai finestroni del pullman, e io ogni tanto le lanciavo uno sguardo
e ammiravo la sua tranquillità, ed ero contenta che una piccola parte di essa
fosse merito del mio discman. La mia inquietudine in quel momento era un poco
sopita. Ma le gite scolastiche erano fonte di sofferenze continue. Ora voi
avrete da dire sulla parola sofferenze.
Lo capisco, insomma non erano sofferenze fisiche, o forse un po’ sì, ma non
stavo male, non stavo morendo
maledizione. Ma ho un ricordo chiaro, semplice e netto di alcuni momenti di
grande insofferenza, cioè della sensazione di essere impotente davanti alla sofferenza, sofferenza causata dalla vista
di cose varie, di dinamiche che avvenivano tra i miei compagni, di risa che con
me non c’entravano niente, dalla sensazione di esser in mezzo a persone di cui
non mi interessava molto e di essere in tanti e di essere nello stesso tempo
assolutamente sola. Odiavo assai passare con il nostro rumoroso gregge in posti
nuovi e belli e pieni di possibilità,
e odiavo essere dentro quel gregge e non poterne uscire, e se loro fanno casino
come fanno sempre gli italiani,
anch’io sarò tra loro, anch’io sarò
loro. Ma la cosa che più mi faceva andare in crisi nelle gite scolastiche era vedere posti nuovi, vedere le persone
che vivevano là passeggiare per strada, andare in posta, e fare tutte le loro
cose. Insomma vedere posti nuovi era collegato immediatamente, era tutt’uno,
con la possibilità che anch’io avrei
potuto vivere là, se solo avessi potuto uscire da quella fila di scolari,
se solo avessi potuto….rimanere ultima
della fila, e alla prima curva della strada fermarmi, e poi correre a
perdifiato sul marciapiede nella direzione opposta, e girato un angolo sparire
per sempre.
Questo accadde una volta a Ginevra. Era una gita autunnale, e
con il mio discman e le cuffie e la musica avevo osservato le montagne
avvicinarsi e diventare enormi, mentre mi dicevo che dovevo stare tranquilla
perché nessuno lì conosceva le montagne come me, nessuno in quel pullman
sarebbe mai sceso e corso nel bosco, nessuno sarebbe stato ore a vagare in
mezzo ai pini odorando l’aria o guardando le nuvole. Stavo seriamente
cominciando a sentirmi da schifo perché volevo essere in quel posto senza
essere nel pullman e senza essere in gita. Invece le solite voci odiose
continuavano a urlare e ridere sguaiatamente appena fuori dalle cuffie che
avevo nelle orecchie. Ma niente.
Arrivammo a Ginevra senza che tutta la cosa riuscisse a sconvolgermi più di
tanto. Mi ero raccontata un sacco di favole sul fatto che qualche mese dopo
avrei sicuramente fatto qualcosa, avrei lasciato la scuola, sarei scappata da
casa, sarei andata in Canada, e mentre passavamo il Gran San Bernardo tutto questo era già successo, e io stavo
vivendo una meravigliosa e perfetta altra vita in British Columbia, dove tutto
era al suo posto e non c’era bisogno di gite perché nessuna gita, nessun nuovo posto mi avrebbe fatto desiderare
cose che non avessi già, nessun nuovo
posto mi avrebbe fatto desiderare di cambiare, mai più.
Il problema fu quando arrivammo a Ginevra. Era una di quelle
giornate limpide di autunno inoltrato, in cui il sole è tiepido e le foglie
sono rosse e gialle, e il cielo è terso, gelato, perfetto, azzurro chiaro, con
striature uniformi di bianco, tirate dal vento freddo. L’aria era frizzante e sapeva di neve. Il
posto era bello davvero. Per una volta una città non mi dispiaceva. Per un po’
comunque la mia testa continuava a vagare in pensieri contorti in cui io non
ero io e presto sarei stata qualcun altro e presto sarei stata in un altro
posto. Insomma mi ero autoconvinta di essere solo di passaggio, ma non nel senso che ero di passaggio in quella
città, ma proprio che il mio essere io in quel momento era di passaggio, era
una fastidiosa fase di transizione verso qualcos’altro
non meglio specificato; a scuola, in gita, in pullman, in quell’istante in
cui stavo nel pullman, io ero di passaggio; io non ero davvero io; eddai! Io
non sono una di loro, dopotutto; io vedo tutto questo con occhi diversi; io odio
tutto quello che sono e dove vivo e presto andrò da un’altra parte. Presto tutto cambierà. Questa cosa resse
per un certo tempo, anche se vacillò quando sentii quell’inconfondibile odore
di neve appena scesa dal pullman; quell’odore di legna bruciata che era tanto
familiare fu una fitta improvvisa allo stomaco, una coltellata silenziosa. Ero quasi
persa. La mia strategia di
difesa faceva acqua da tutte le parti. Tuttavia andai avanti un po’, concentrandomi per
non pensare a niente.
La crisi fu quando vidi il lago. Il lago era grande,
perfettamente cintato da file uguali di alberi, rossi e arancioni e gialli, e
sotto di loro un pavimento di foglie colorate, e intorno al lago correva un
viottolo asfaltato dove dei bambini
andavano coi pattini, dei bambini svizzeri alle tre di pomeriggio
pattinavano intorno al lago, ridevano, erano felici; il giorno stava per finire
e loro sarebbero rientrati in una casetta svizzera, in una città che non puzza
e dove l’aria sa di neve, e ogni tanto nelle vie puoi sentire il profumo di
arrosto che non è come quello di casa, e il profumo di torta, e puoi fare tutto
questo in un normale pomeriggio di un giorno
di scuola di quegli stessi giorni di
scuola che tu odi perché sono fondamentalmente sprecati, inutili, vuoti, perché tu non potrai mai
pattinare intorno al lago il pomeriggio dopo la scuola.
I bambini sorridono, ignari di tutto questo delirio che la
mia testa fabbrica a loro insaputa e ad insaputa di tutta la fila di miei
compagni che avanza scomposta e se ne sbatte altamente dei bambini e del lago,
e di tutte le mie malate considerazioni. I bambini che pattinavano intorno al
lago è stata la crisi. Era il segno evidente, chiaro e limpido come quel cielo
d’autunno, della mia maledetta sconfitta.
Dell’inconsistenza di tutti i miei
progetti e piani per cambiare qualcosa, che non erano che castelli in aria. Era
orrore, sofferenza, tristezza irrimediabile, era il tonfo sordo di una casa che
crolla, del pavimento che si sfascia sotto i miei piedi. Continuai a camminare
sul tappeto di foglie mentre il sole faceva strani giochi con l’acqua del lago,
ma niente mi interessava più. Tutto era come era, io ero proprio io e non un
personaggio di passaggio, io non ero altro
che io, e se la cosa mi faceva schifo, bè, c’era poco da fare. Vorrei tornare
indietro. Vorrei tornare…
Ora sono proprio io che cammino sul lungolago di Ginevra,
sono sempre io che da fuori mi vedo camminare a testa bassa senza capire perché
devo sentirmi così male, sono io che mi trascino dietro al mio gregge, sono io
che non posso uscire dal gregge né da quella che è la mia attuale vita per
pattinare sul lungolago, e i sogni infranti sono ora in mille pezzi scomposti,
specchi che riflettono cose a caso, pezzi di progetti e desideri di un’altra
vita in un altro posto, diversa, che ora non hanno più senso, anzi sembra che
mi deridano per la mia ingenuità. Ahah!
Guarda! I bambini giocano ancora, e tra poco rientreranno a casa, dalle
finestre puoi vedere la luce gialla della cucina, è caldo dentro, e la cena
quasi pronta. Cosa fai tu? Perché piagnucoli? Pensa a camminare dritto. Pensa a
camminare dritto. Cammino dritto, gli occhi fissi sulle scarpe di chi
cammina davanti a me. Devo concentrarmi per non cadere, perché sto seriamente
per cadere giù. Mi guardo intorno in un attimo di disperazione e vedo
chiaramente che non c’è via d’uscita. Dove
vorresti andare? Non puoi far altro che camminar dritto.
A quest'ora, da qualche parte, i bambini giocano ancora. Io volevo essere uno di quei bambini. Volevo solo pattinare nelle giornate di
sole, e aspettare l’inverno, e non sentire più quell’ansia per le cose a venire
perché sapevo che non sarebbero state come volevo, sapevo che avrei dovuto
sopportare di stare chiusa in casa, che avrei dovuto andare a scuola e stare in
un posto che non avrei mai voluto. Volevo solo aspettare l’inverno, ma perché
nessuno ha capito? Non volevo fare del
male a nessuno, perché nessuno ha capito?
Bambini, bambini! Cancellate il mio nome e la mia storia,
bruciate i miei documenti e tutti i ricordi, sono inutili, sono corrotti, forse
sono falsi. Nessuno venga a cercarmi,
perché ora starò qui. Nessuno si ricordi di me perché io non ci sono più.
Perché non posso essere anonima? Perché non si può cancellare tutto e partire
daccapo? Bambini, bambini! Perché
perché perché non posso essere una di voi?
Bambini, bambini!
Perché perché perché non si può cancellare tutto e partire daccapo? Bambini,
bambini! Quand’è quand’è quand’è che potrò essere una di voi?