Vorrei dire
qualcosa, dirlo al mondo, ma in un venerdì sera di feste e birra chi vuoi che stia a sentire le
parole scomposte di KK?
Non le ascolterei nemmeno io, se solo potessi stare
dall’altra parte.
Le rare volte che ci sto, sono spezzata in due. Quando tutto
sembra perfettamente ricomposto, KK si sente tranquilla. Ma dura un attimo, ed
è raggiungibile solo inondando il corpo di endorfina chimica. KK non sente e
non vede la crepa, la frattura che è in lei così fastidiosa. Essa è tanto più
odiosa quanto pare assente negli altri. Ma cosa ne sa KK, in effetti? La vita
degli altri è solitamente un enigma. Forse, molto probabilmente, la vita degli
altri è molto simile a quella di KK. Ma no, quella maledetta crepa non c’è. In
loro non ve n’è traccia. Se no non sarebbero tutti così sguaiati. Avrebbero un
po’ di rispetto, per chi nella crepa ci vive e, a volte, ci resta secco. Siamo tutti
spezzati, ma nessuno vuole davvero ammetterlo.
Al contrario, KK è
maledettamente riflessiva e non vede la stessa attitudine negli altri.
Quando KK si
accorse di questo, un giorno lontanissimo, preistorico, del liceo, fu assalita
anche da un pensiero autodistruttivo. Chiuse gli occhi e pensò forte forte a
come avrebbe voluto nascere dall’altra parte. Loro, i suoi compagni, erano così
perfetti. Inconsapevoli della crepa e di tutte le sue conseguenze. Naturalmente
era apparenza. Naturalmente quel ridere e quell’emettere sentenze e quello
sbaciucchiarsi e dirsi amore tesoro sei
stupenda erano una copertura. Dentro loro soffrivano, forse, ma se ne
stavano zitti. Ora KK può deriderli, per quella loro pochezza adolescenziale.
KK si lasciava così sconvolgere dalle cose e dalla realtà, da scrivere come una
pazza, nell’ora di religione, invocazioni e racconti a proposito di criceti su
una ruota, che volevano rappresentare gli alunni a scuola.
Lei li odiava,
tuttavia avrebbe tanto voluto essere come loro. Gli altri apparivano isole di
perfezione in mezzo al caos dell’adolescenza. Tutto in loro era falso. Allora KK
non poteva capire il profondo senso filosofico della loro falsità. La parola falsità
era anzi usata a scuola, spesso dagli stessi falsi, per definire chi stava loro
antipatico o non si comportava secondo il loro codice. Ma loro incarnavano davvero, nel vestirsi, nel parlare, nei
rapporti con gli altri, il grado più potente del Falso. Avanzavano per i
corridoi a grandi falcate, decisi, sicuri di sé, e senza degnarti di uno
sguardo. Potevi sentire le risate alle tue spalle. A volte ti sbagliavi, quelle
risatine non erano per te. Ma a volte si diventa paranoici. La loro sicurezza
si nutriva di un saldo quanto effimero controllo sul mondo circostante, fatto
da cose, persone, e ambiente in generale. I loro gesti e le loro mosse si
adattavano perfettamente all’ambiente e alla situazione. Condividevano con gli
altri il modo di chiamare le cose. Condividevano con gli altri il modo di
rapportarsi al mondo. KK rimase subito affascinata da questa capacità di
adattamento, giudicandola comunque qualcosa di elementare e non particolarmente
lodevole. Del resto di comportarsi come gli altri, di essere uno uguale all’altro,
sono capaci tutti. KK tentò anche, per un certo tempo, di vedere se un dialogo
fosse possibile, con l’altra parte. Le volte in cui dette fiducia, rimase
delusa. Allora cercò alleati. Tra quelli che stavano sulla sua stessa barca,
ognuno aveva sviluppato modi diversi e fantasiosi per sfuggire all’indifferenza
e alle angherie.
L’importante è identificarsi. Se quelli non sanno cosa sei,
non riescono a incasellarti, sei fottuto.
Se sei indeterminato generi antipatia
solo a guardarti. Così c’era chi si rivolgeva al punk. Altri rimanevano
orribilmente anonimi. Questi venivano eliminati per primi. Si autoeliminavano.
Molti
lasciarono la scuola proprio in questo modo. KK vedeva la loro sofferenza ma
non poteva far nulla. KK ci mise un po’ a ottenere una posizione decente, a
entrare in una casella in modo che gli altri smettessero finalmente di
chiedersi cosa fosse e smettessero di disturbarla. Tuttora KK non ha idea di
quale fosse quella casella e di cosa pensassero gli altri di lei. KK era
probabilmente un enigma. A tratti se ne usciva con cose geniali che lasciavano
gli altri interdetti. Chissà se avrà acceso in loro una luce, per dire che non
è tutto qua. In ogni caso, da quella posizione sconosciuta, KK potè osservare
da vicino la nascita e lo sviluppo di quel falso
che nella vita adulta causa la stupidità e il danneggiamento del mondo e della
vita umana.
E KK non ha paura di essere troppo apocalittica dicendo questo.
I germi
dell’odio e della crudeltà di cui l’uomo è capace sono vivi più che mai, in una
classe di liceo.
Il disprezzo che grondava dai commenti alle parole dei prof,
dalle risposte stizzite e irrispettose che KK sente ancora risuonare nelle
orecchie, era lì, in bella vista nella sua semplicità disarmante. Il candore
con cui gli altri rispondevano male ai prof era qualcosa di incredibile. Un giorno
la supplente della Giovanelli, che non aveva molti anni più di noi e che
tradiva il nervosismo attorcigliando le mani tra loro mentre spiegava, rischiò
di scoppiare a piangere. Quegli stronzi l’avevano distrutta psicologicamente. Lei
ingoiò le lacrime a fatica. Lei era alla cattedra, ma loro l’avevano trascinata
con le parole e gli sguardi e le risatine, tra i banchi, e lei era di nuovo una
ragazzina al liceo, angherie che si ripetono ancora e ancora anche dopo che ti
sei preso una laurea, un dottorato e hai vinto un concorso. Guardandola senza
poter fare niente, KK capì che gli altri
e le loro parole subdole, i loro sorrisi di scherno, erano impossibili da
fermare. Non c’erano leggi scritte, leggi della scuola, che impedissero a loro di farti stare male anche senza
bisogno di parlarti direttamente.
La supplente infatti non punì nessuno. Piangeva
per la sua impotenza, perché contro la pura cattiveria silenziosa non si può far
nulla. E anche perché nella classe come nella folla, non c’è nessun colpevole. Risatine
continue risuonano tra i banchi, ma chi può dire che sono per te?