Sono su un ghiaione scosceso e fastidioso in un giorno di
ottobre. Non devo scivolare per nessun motivo. Sotto ci sono varie cose
appuntite su cui non voglio atterrare. L’erba è semi umida, spunta a tratti tra
le pietre marce e sfasciate, c’è uno stratino bianco di brina, ma a toccarla
non è fredda. Sono appesa con un piede e una mano ad una roccetta solida, ma la
cosa non durerà a lungo. Già la sento sfaldarsi sotto la scarpa. Affondo avidamente le dita nella terra nera
sotto la roccia, creo un appiglio. Respiro a tratti lunghissimi. Eppure laggiù
nella valle, lontano ma non troppo, ci sono case, e la via principale inondata
di sole, e persone che probabilmente passeggiano, e la chiesa gialla che sta
immobile in mezzo ai pini verde scuro. Qui da molte ore è scesa l’ombra, e le
pietre sono fresche, tendenti al freddo, umidicce, i rododendri stanno
abbarbicati poco lontano da me e mi guardano, e io so che devo raggiungerli e
attaccarmi a loro per riuscire a spostarmi da questa assurda posizione. È in
effetti una situazione fastidiosa e un poco preoccupante, ma io non provo
nulla. Sassolini si staccano da dove sono appoggiata e rotolano a valle
saltellando. Sembrano divertiti. Alzo lo sguardo, e in cima al ghiaione, oltre
un salto di roccia grigia e pulita, le teste di tre camosci mi osservano dall’alto,
le corna corte e appuntite che si stagliano contro l’enorme parete retrostante.
Sembrano divertiti. Ho la sensazione che
nel cielo senza sole, oltre i camosci e la parete, qualcun altro o qualcos’altro
mi guardi dall’alto.
***
È sera, sto scendendo a valle in macchina, su una strada
deserta. Davanti a me un immenso gregge di pecore belanti, una quindicina di
agnellini bianchi e puliti, tre cani dagli occhi azzurri, e la jeep del
pastore, vecchia e traballante , senza targa, carica di oggetti strani. Seguono
il gregge in vari punti, per non disperderlo, tre pastori di cui uno giovane e
scattante, in canottiera nonostante i sei gradi esterni. Tutt’intorno,
campanacci, grida disperate, guaiti, fischi, pecore che saltano il guard rail,
pecore che inciampano, zoppicano, si avventano a mangiare l’erba a bordo
strada, corrono terrorizzate quando i cani le inseguono. Si muovono in modo
scomposto, e traboccano dai confini della strada verso il bosco, verso il prato,
riempiono come acqua che corre ogni antro libero, prima che qualcuno le riporti
sulla retta via. In fondo al gregge un asino carico di agnellini, sei teste
sporgono dalla sella e ondeggiano ad ogni passo. Ogni tanto l’asino si
inchioda, e il tipo che lo guida lo guarda male e gli mostra il bastone
agitandolo in aria, finchè l’asino non riprende. È quasi buio. C’è una luce
blu, fredda, la valle è invisibile sotto uno spesso strato di bruma, si vede
qualche cima sprofondare nella notte, e qualche luce arancione nella
valle. Mi avvicino alla jeep, e i miei fari
illuminano il retro aperto e scrostato.
Nel cassone c’è un agnellino che tenta di stare in piedi nonostante le scosse
della jeep, sta fermo e ben puntato sulle zampe, e le zampe sono più grandi della testa e del
corpo, ma stare in piedi è difficile, lui è di un bianco abbagliante alla luce
dei fari, ondeggia pericolosamente, deve stare in piedi in mezzo a una serie di
carabattole tra cui del fil di ferro, e ogni tanto quando la jeep frena lui
cade in avanti e poi si rialza. E guarda me, guarda oltre la jeep l’asfalto che
scorre, accenna a belare, chiama qualcuno, cade di nuovo. Io lo guardo,
bloccata dietro, impotente verso di lui, verso la jeep, verso il gigantesco
gregge che mi impedisce di passare, verso tutta la crudeltà del mondo che sta
nei suoi occhi che mi guardano. Ho come la sensazione che non saremo, non siamo
mai liberi del tutto; ho come l’impressione, ed è chiara, viva, che la violenza
che noi ora non vediamo sta da qualche parte, sta ora latente, nascosta,
sorridente ad attenderci. Il nostro momento è ogni ora, ogni secondo, il nostro
momento è negli attimi persi, negli sguardi che ci perseguitano. L’agnello ha
continuato a guardarmi per un tempo lungo e indefinito, e dentro c’era la
storia del mondo. Ogni sua caduta sarà anche nostra, e ogni suo pianto ha la
nostra voce. Nel suo guardarsi attorno smarrito ho rivisto tanti occhi tristi
chiamare aiuto, e noi distogliere lo sguardo.
Ma ora mi fissa con gli occhi umidi e non posso sfuggire. Forse
un giorno nessuno potrà sfuggire quando ci porteranno il conto di tutte le volte che abbiamo guardato a terra invece di sostenere lo sguardo.
Cade di nuovo e
si rialza, ma la jeep non smette di traballare.
Io sto dietro, comodamente
seduta in auto, le mani ancora congelate per la discesa a piedi, la faccia che
comincia solo ora a scaldarsi. Ma tutto
va bene per me, in effetti.
Poco dopo è buio. I pastori sono agitati. Uno di loro corre
avanti superando le pecore, con un telefono in mano. Qualche minuto dopo il
gregge si arresta, o meglio smette di avanzare ma continua a muoversi sul
posto, si agita e sale da tutte le parti sui lati della strada. C’è un cavallo
che non avevo visto che sta in mezzo al gregge e sembra agitato, si alza e
scalcia, il tipo che lo tiene lo maledice e poi comincia a farfugliare cose a
me che sono in macchina, dicendo che mi
distruggeranno la macchina se sto lì. A questo punto il gregge comincia a
tornare indietro. Sono appena davanti a me. Metto la retro, ma dietro c’è
un’altra auto, mette la retro anche lei ma si ferma a bordo strada. Io parto e
la supero, il gregge davanti a me corre ora, mi raggiunge, mi ha raggiunto e mi
supera mentre io sto ancora andando, ma ho paura di metterne sotto qualcuno e
rallento. Le teste delle pecore scorrono appena fuori dal mio finestrino, mi
circondano e continuano ad avanzare oltre, finchè come una nave incagliata rallento
sempre più fino a fermarmi in mezzo al fiume di pecore, che passano come
fantasmi bianchi e improvvisi davanti ai fari, appaiono e scompaiono nella
strada blu che ora è un fiume senza forma, bianco e belante.
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