Monday, July 5

Che aria respiri oggi?


Che aria respiri oggi? Controlla l’aria della tua città e leggi le notizie verdi!

Questo è quello che mi propone la pagina iniziale di Firefox. Che aria si respira? Parliamone pure. Potremmo parlare anche di Cinture per l’estate: quali colori? Non so, scegliete pure. Queste sono le alternative. Io sono qui, e ho tante, mille alternative. Non nel passato, ma ora. Ora che batto sui tasti, con in testa una serie di cose che mi fanno rabbia. Quasi tutte le cose che mi vengono in mente mi fanno rabbia. Ora ho finito le risorse. Non so, mi sembra che tutto stia finendo, quando invece non è nemmeno iniziato un bel niente. Sento, ed è un’intuizione presente, chiarissima e dolorosa, che ci sono tante cose che mi aspettano. Che io potrei, vorrei, ma che non aspettano in eterno. Sono treni. È come abitare davanti alla stazione senza esserci mai entrati. Senti il rombo del treno, meraviglioso, che sa di cose nuove e possibili e di futuro. Ce ne sono tanti, di treni. Passano anche vicino a te. Spostano l’aria di fianco a te. Torna l’intuizione improvvisa. Non puoi farci niente.

Le offerte della settimana!

Non so che dire, delle offerte della settimana. Non riesco a convincermi a studiare. Proprio non mi interessa. Già vedo la scena. Mi sembra che ci sia sempre qualcosa che mi sfugge. E lo so che niente lo si capisce mai completamente, questo succede sempre. Ma stavolta ci sono troppi buchi. La scena me la vedo davanti semplice e chiara. Farà caldo e sarà una stupida aula grigiastra. Io scapperò con lo sguardo fuori dai finestroni. Immaginerò cose, attaccherò le mie parole, i concetti, alle cose che vedo fuori. Ad esempio una cosa come la ragione antagonista avrà la forma della scala marroncina dall’altra parte del cortile, e i mattoncini bianchi sul muro di fronte raffigureranno perfettamente il concetto di mistificazione. È sempre così. Legare i concetti che si formano in testa a delle immagini fuori, forse per maneggiarli meglio. Ma già tutto questo mi fa rabbia. Non ho nessuna voglia di niente di tutto ciò. Vorrei uscire di casa e iniziare a camminare all’infinito in una direzione, senza voltarmi indietro. Sento che niente sarà per sempre. Sento che rimpiangerò le cose di oggi che non ho vissuto a sufficienza. Già qualcosa in me mi dice che questo pensiero è una cazzata. Ma tant’è. Non penso che riuscirò a sopportare più di tanto la concentrazione.

Something is broken. Mi sembra di aver vissuto un sacco. Una sacco di tempo che ora mi appare come disposto ciclicamente. O forse come un specie di parabola. Ora io sto scendendo, nel caso non si fosse capito. Non è una constatazione volutamente pessimista, nè tristemente compiaciuta. È una constatazione, e basta. Qualcosa sta finendo. Mi sembra di essere sopravvissuta fin qui. O meglio, mi sembra che la mia vita fin qui sia stata soprattutto sopravvivenza. Tentativo continuo di non cadere. Suppongo che sia così anche per gli altri esseri umani, anche se quasi nessuno se ne accorge. Danno nomi alle cose che non vanno per illudersi che siano controllabili. Chiamano per nome le cose, le esperienze, le situazioni, e così possono staccarsi da esse, e proseguire. Nessuno vuole ammettere che viviamo nell’angoscia. Ma io sono d’accordo. Vorrei essere dalla parte di chi vive inconsapevole. L’ho sempre voluto. Vorrei dare un nome qualsiasi alle cose che accadono e andare avanti. Invece il miscuglio di cui è fatto il reale mi appare come effettivamente è, confusione e dolore senza redenzione. Eppure io sono la prima a essere ottimista rispetto alla media delle persone. Sono ottimista, in generale, nonostante tutte le stupidate che ho appena detto.

Non mi piace parlare di cazzate. Tipo che palle che piove o che palle che fa caldo oppure fa troppo freddo per essere estate eccetera. Queste cose mi snervano, veramente. Non me ne frega niente.

Ora sono le dodici e trenta. Ho sprecato un’altra mattina nella non-voglia totale. Eppure tante cose intorno a me sono invitanti. Altrettante sono amiche. Chiunque altro nella mia situazione si alzerebbe e andrebbe a farsi un giro fischiettando. Per ora, questa capacità è lontana per me. Le cose non mi sono ostili. Io sono ostile. Mi fisso sulle cose, ci penso troppo. Mi sembra che per tante non valga la pena. Mi sembra che tante siano ormai andate.

A questo punto del percorso, a questo punto della mia personale sopravvivenza, personale distrazione per non vedere le cose che nel mio mondo mi fanno rabbia, è finito qualcosa. Ho finito quel che mi permetteva di andare avanti. È una droga. Qualcosa che prendo goccia a goccia, giorno per giorno, per andare oltre le settimane e farle apparire, in un eventuale e inconscio bilancio, complessivamente accettabili. Ora questa cosa, questo farmaco, è finito. Ora vedo le cose come sono veramente. Le cose senza nessuna aggiunta per farle apparire allettanti.

Magari stiamo dormendo. Magari dormiamo e il nostro corpo è da qualche parte, scosso da spasmi, come il mio gatto ora si muove involontariamente nel sonno. Magari stiamo scappando. Magari un giorno dovremo render conto a qualcuno di questi giorni insensati. Sarà già abbastanza render conto a me stessa. Già ora mi fa sentire di merda.

Per fortuna il tempo non si ferma, nelle situazioni di merda. Siccome va avanti, c’è il cinquanta per cento di possibilità che vada meglio. Tuttavia non è il tempo a risolvere le cose. Il tempo in sè non risolve un bel niente. E’ un’invenzione umana. Anche questo è dare un nome a qualcosa per tenerlo sotto controllo. Attaccarcelo al polso per averlo sempre con noi.

A questo punto vorrei dire qualcosa di carino per concludere in bellezza, ma non mi viene in mente niente. Il mio equilibrio non si è ristabilito. Scrivere questa cazzata non è servito a niente. Temo che molto di tutto questo sia falso. Non mi fido neanche di quello che mi viene in mente, e di quello che scrivo. Per cui, no , non mi interessa sapere che aria respiro oggi. Bastano delle stupide foto su internet di gente che conosco appena perchè io mi perda completamente. Ho appoggiato la testa sul tavolo. Guardo il legno e le venature, ne seguo il disegno che sembra una strada nel deserto. La ventola del computer è un interessante rumore di sottofondo. Non ho fame. Questo è strano. Io ho sempre fame. Ora in questa strana posizione tutto sembra diverso. Voglio sollevare la testa. Voglio decidere qualcosa. Voglio progettare, realizzare e vincere. Voglio che qualcosa vada in porto. Stare con la testa sul tavolo a sentire la ventola del computer non risolve niente. Sperare che queste nuvole estive fuori dalla mia finestra portino una tempesta non risolve niente. Sono stata altre volte con la testa sul tavolo. È una cosa ogni volta nuova. È una posizione adatta per cercare vie d’uscita. Ascoltare questo ronzio. Mi piace. Almeno lui, non potrà durare in eterno.

Sunday, June 20

che c'è che non va?



N°1: I tedeschi al mare. I tedeschi in Toscana alle sei di pomeriggio. A quest’ora, forse a Siena in un ristorante con la veranda, i tavoli fuori, su piazza del campo senza sabbia e senza cavalli, i tedeschi già mangiano nell’ultimo sole arancione. Inconfondibili nei loro cappelli da esploratori. Profumi di cibo e tintinnare di posate.

I figli se ne stanno tranquilli coi genitori. Sono due, generalmente. I figli sono sempre belli. Ragazzini biondi. Fratelli e sorelle si rincorrono. Eppure non fanno il casino di quelli italiani. Sono ordinati. Il sole italiano li ha abbronzati delicatamente, senza fargli male. Ora sono perfetti, e non sembrano pensare a niente.

Immagini vaghe ma potentissime di una vita diversa e nuova, la loro, e di un’estate finalmente divertente ti balenano davanti agli occhi.

Così hai l’impressione che tutto questo assieme, la sera tiepida e l’ultimo sole e il fatto che loro siano lì, biondi e belli e tranquilli a mangiare mentre anche tu hai fame, tutto questo sembra essere l’essenza della felicità.

È un’intuizione improvvisa per me. Una visione che dura un secondo. Tutto questo sembra un che di irraggiungibile, un sogno chiaro dentro una campana di vetro, che tu guardi solo da fuori, passando. E tu, che alla fine sei nella tua terra, e sei sbucato su queste colline per lo stesso principio per cui crescono le piante, sei semplicemente lontano da questa visione. Sei altro.

È sera anche per te, ma per te è troppo presto per mangiare. E tu in quel ristorante nemmeno ci andresti mai, perchè sai che li spennerà, i tedeschi; perchè è il tipico ristorante per turisti, per mangiare alle sei nel sole arancione.

Ma la visione ti perseguita. Quei ragazzini. Sono lontano da casa, in un posto per loro nuovo, ma sono tranquilli con mamma e papà. Maledetti ragazzini.

Tu sai che loro, qui e ora, sono felici .

Una felicità di Altro, una felicità possibile solo altrove . In un determinato luogo e in un determinato tempo. Niente di generale. Niente di intercambiabile. È qui e ora, ed è per loro. Un giorno piangeranno e andranno a scuola e l’estate finirà; ma ora no.

Hai fame, hai fame anche tu, di questa sera nell’ultimo sole e di questa sensazione e di questo profumo forse di pizza che avrai sentito mille volte;

ma il tuo posto è fuori.

Questo è il loro momento. Tu puoi solo guardare e passare oltre.

Questa non è una terra lontana, per te. Senti le voci, capisci le parole. Eppure è estranea. Tutti intorno a te parlano la tua lingua. Tuttavia quell’altra felicità ti perseguita. E non è perchè quella degli altri è sempre migliore. È strano. È nostalgia di qualcosa che se n’è andato tempo fa. Nemmeno ce ne ricordiamo più. Ora di quel qualcosa che c’era e di cui non sappiamo nulla rimangono delle schegge conficcate non si sa dove. Qualcosa è stato diviso, tempo fa. Qualcosa era diverso, in un tempo di cui nessuno ha memoria. Ora siamo schegge impazzite, siamo come chiusi, camminiamo in mezzo alla gente e ancora siamo soli, e nella luce arancione della sera tutte le cose di quel tempo che non sappiamo tornano in mente, nelle vite degli altri. Le guardi venirti incontro come si osserva qualcosa che non si può fermare. Le osservi senza poterti muovere. Sono loro che vengono da te. Tu non ti muovi.

Io non mi muovo. Guardo le cose che vanno. Le vite degli altri, meravigliosi luoghi dove ogni cosa ha funzionato. La vita di chi passa ora nella via sghignazzando inconsapevole, meravigliosi luoghi dove ogni cosa funziona. Tutto questo, tutto questo casino che sono io, non regge il confronto. È tutto una crepa. Nelle crepe ci infili un bastoncino e si spacca tutto. Le crepe sono su qualcosa che non sta assieme. In realtà nessuno sta assieme veramente, solo che non se ne rende conto. Per questo sghignazza. Pensa che sia impossibile disgregarsi, e la sola convinzione basta perchè questo a lui non succeda mai.

Non gli succede, in effetti. In realtà è possibilissimo.

Nessuno è senza crepe, ma a me basterebbe far finta.

Vorrei che quella sera fosse finalmente mia.
Vorrei far finta che qui e ora, e magari anche domani, questo sia
un luogo meraviglioso dove ogni cosa funziona.


Saturday, May 29


Questi bambini sono stati abbandonati. Li vedete ora in una foto di tanti anni fa. Sorridono e già è nei loro tratti qualcosa dei loro volti adulti. Sorridono, nessun presagio negli occhi sognanti. Nessun progetto. Quello più grande tiene il fratellino stretto a sè. Nessuna parola. Del mondo che verrà, nessuna traccia.

Fuori sta venendo sera. Mi diverto sempre a notare, imperterrito, quanto riesca a rimanere dove sono, con quanta forza riesca a oppormi ad un cambiamento che sarebbe solo forzato, e come in tutto questo mi trovi anche bene. E quanto è facile, abituarsi alle cose. Diventano semplicemente normali.

C’è un odio, che scorre sotterraneo, appena sotto tutte le cose pensate. È un sottofondo, una musica, il suono del mondo che scorre attorno. Il suono degli altri. È anche, forse, odio silenzioso per il destino di quei bambini. Tutti i bambini, proprio come loro, sono stati abbandonati. Qualcosa di tutto questo si ripete in ogni infanzia. Tuttavia sembrano vivere felici, ora che sono grandi. Tranquilli. Una tranquillità sempre uguale. Non è stato un problema, essere abbandonati. In realtà lo è, e quella strana arroganza che hanno oggi sembra urlare, dentro di loro, urla e piange ma è come urlare a una porta chiusa. Come essere sepolti vivi.

Capita anche a me, questa sensazione. Approfitto di quando sono sola in casa per urlare evitando così di farlo in situazioni non opportune. Nessuno vuole fare i conti col fatto di esser stato abbandonato. Nessuno vuole ora fare i conti con la propria impotenza. Accadono cose ingiuste, e dio solo sa quanto ora questa parola sia carica e piena e vera, per una volta. Eppure non mi scompongo. Le cose sono strane. Una brutta sensazione.

Ci sono cose irrisolte. Così come nessuno vuol riconoscere il proprio abbandono, e la propria impotenza, e abbassare gli occhi per riflettere rialzando solo dopo lo sguardo finalmente consapevole, allo stesso modo nessuno vede quanto sia tutto dannatamente irrisolto. Eppure basterebbe chiudersi un po’, stare per conto proprio, fare esperienza di una solitudine insensata, o fare qualche cosa che non abbia alcuno scopo preventivo, per vedere (improvvisamente, come un lampo, una visione spaventosa ma nuova) come tutto non abbia un senso, oltre le piccole cose che volutamente mettiamo in fila una dopo l’altra. Ordiniamo per dimenticare quello che fuoriesce, quello che non ci sta, nella nostra fila, le pedine che cadono, le pedine in eccesso, le pedine allo sbaraglio. Cosa possimo salvare in tutto questo, sembra esser stato già deciso. Voleva essere una domanda. Cosa possiamo salvare? Qualcuno ha già deciso per noi, cosa salvare. Cosa credere. Di cosa aver paura.

Così questa sensazione di cose che si ripetono non riesce a farmi alcun effetto. A volte un specie di angoscia mi prende, guardando le cose come sono e vedendo come saranno e sapendo che non sarò pronta. Anche guardando gli occhi gialli di un gattino, può prendermi una strana angoscia. Ci vedo qualcosa che mi fa paura. Qualcosa di me, probabilmente. Un gattino che gioca è divertente, da vedere da fuori, in un bel giorno fresco di maggio, la mattina preferibilmente. Ma un gattino che gioca è solo. Il gatto è un animale solitario, sarà solo tutta la vita. Evita di incontrare altri gatti. Se succede li allontana. Vuole i suoi spazi. È tranquillo solamente per conto suo. È come una scatola chiusa. Ha occhi gialli irresistibili, ma è solo e lo sarà sempre. Un senso di prigionia, di natura inconsapevole, esce da quegli occhi, va verso l’esterno, va verso di me, e vorrei comunicare, dire qualcosa che non abbia parole, come se un senso fosse comunicabile con l’aria, ma invece non dico niente, e dopo poco qualcuno dei due distoglie lo sguardo. Tra gatti lo sguardo è un affronto. Chi lo distoglie per primo se ne va da sconfitto.

Anche i bambini abbandonati non riescono a reggere lo sguardo. Per sopportare l’angoscia, che c’è ma è stata ricacciata indietro, usano stratagemmi. Gli occhiali da sole sono d’aiuto, in questi casi.

I bambini abbandonati si attaccano alle cose in modo morboso. Non stanno mai da soli. A volte senza accorgesene cercano, ingenuamente, inconsciamente, di comprare l’affetto altrui. Cercano di apparire forti. Si circondano di altri bambini abbandonati. È il festival dell’abbandono. L’abbandono è generalizzato. I genitori possono andare a fare la spesa del pesce senza che il pensiero dei bambini, ora grandi, li sfiori minimamente. Spendono tranquillamente un centinaio di euro in cernia, branzino e spada. Ora il sacchetto è un ammasso gelatinoso di pesce morto. I genitori non hanno pensieri, ora. I bambini sono cresciuti. Loro devono solo pensare a cucinare quei cento euro di pesce, prima che cominci a puzzare. I bambini abbandonati ne assaggeranno forse un po’, ma gli farà schifo, e lasceranno la cena-con-amici-dei-genitori per andare a far serata fuori, dove altri cento euro andranno in cose da bere, naturalmente e fortemente alcoliche. I genitori sorrideranno agli amici, e sorrideranno anche dentro di sè, e diranno con soddisfazione che i ragazzi crescono in fretta e che ormai son grandi. Poi finiranno cernia e spada e branzini vari, mentre i bambini abbandonati cercheranno, da qualche parte là fuori, modi alternativi per sostenere lo sguardo. Qualcosa di facile, preferibilmente. Non ci piacciono le cose impegnative. Nell’abbandono generale, cerchiamo di essere vincenti. Cerchiamo un felicità che appaia tale anche agli occhi degli altri. Dev’essere affermazione, posizione, vittoria. Bisogna sostenere lo sguardo. La sera infinita e i bicchieri di plastica pieni di birra sono vincenti. In questo senso e solo in questo, in questo mondo e non altrove. I genitori non vedono la catastrofe. Saranno tuttavia i primi a scappare quando tutto crollerà. Sono scappati già prima. Anzi sono stati i primi a scappare quando le cose sembravano eccessivamente difficili. Quando le crepe minacceranno di inghiottire loro, il loro pesce le loro cene, assieme coi loro figli abbandonati che quelle crepe hanno pian piano aperto. Ma i genitori avranno, quando il momento sarà giunto, la scialuppa pronta per scappare dalla nave. I bambini abbandonati saranno come l’orchestra che non smette di suonare anche quando la nave affonda.

Tuttavia affogheranno. Ora però di tutto questo orrore, non si vedono tracce.

Noi che invece le vediamo, affogheremo ugualmente.

Quando la nave sarà affondata il mare sarà calmo. Nell’acqua si zittirà la musica insensata che i bambini abbandonati non hanno smesso di suonare, stonata, insensata, disperata. L’acqua farà tacere tutti.

Il mare è silenzio, e pesci colorati.

Friday, April 23

per ora non ancora tuttavia in qualsiasi momento


Stavo cercando qualcosa sul corso del professore ed è saltata fuori questa pagina.

E’ la cronaca di un giornale. Due anni fa circa. A uno col suo stesso cognome è successo qualcosa.

Non è quello che stavo cercando, e sarà una coincidenza, uno che si chiama come lui, così torno indietro e guardo quello che mi serve, cose per il corso, libri da studiare, qualche informazione. Ma di nuovo vado a finire sulla pagina di prima. Il titolo dice che qualcuno è caduto in un dirupo (dicono sempre così, anche quando si tratta di un semplice pendio ripido) e l’hanno trovato solo giorni dopo, troppo tardi. Non era una montagna particolarmente conosciuta. Neanche tanto alta. Mi metto a pensare che forse la vedo anche, quando dal pora guardo giù verso il lago. È pieno di montagne senza nome, con una vegetazione strana, incoerente. Arbusti a picco verso valle. Non ci si pensa mai, se ci siano strade per salirci. O forse semplicemente, e molto probabilmente, sono io che non le conosco. Non conosciamo la valle di là. Non ce ne occupiamo più di tanto. Il lago è bello da vedere d’inverno. Ha un colore argenteo e freddo. L’acqua è increspata leggermente, solcata da correnti sconosciute, tagliata da lame di sole che la rendono abbagliante anche a distanza. Il lago è silenzioso. L’acqua sembra muoversi ipercettibilmente, ma non fa alcun rumore.

Così, su questa montagna senza nome ma che io ho sicuramente visto, e che si trova incredibilmente vicino a me da qualche parte là fuori, è successo qualcosa a qualcuno con il suo stesso cognome. Continuo a leggere e qualcosa dentro di me ha già capito tutto. Il giornale dice (lo dicono sempre) che era prudente ed esperto. Poi aggiunge che aveva solo 23 anni. Era andato a fare un giro, non tornava e così hanno dato l’allarme. In fondo c’era scritto che anche il papà si era subito offerto di partecipare alle ricerche. Diceva che il papà è un eminente studioso. Un professore della statale.

* * *

Ci sono cose che tendono a schiacciarmi. Succede quando non ho abbastanza difese. Credo sia come quando prendi l’influenza.

Ci sono cose che tendono a schiacciarmi; cose che si portano dietro troppo; così scopro che neanche stare qui a sentire Petto che parla di Cassirer e di teoremi e di scienza e forse nemmeno pensa al suo lago che pure c’è, ed è lo stesso che io guardo dall’alto immerso nella nebbia, nemmeno questo si può più fare; nemmeno questo è senza dolore, perchè gli occhi di Petto lo dicono, che alla fine nè Cassirer nè la scienza risolvono niente, perchè le parole non possono dire quello che io so e lui sa e gli altri forse no.

Quello che ho scoperto, per caso, cercando su internet il suo nome.

E sono sicura che lui ora direbbe, lucido e coerente, che quello, qui e ora, non c’entra; che queste sue parole adesso hanno un senso e sono del tutto legittime, perchè lui sta facendo lezione, ed è qui per questo come lo siamo noi.

In realtà tutto questo, ogni cosa che dice, si porta dietro l’impossibilità di dire quella cosa, e l’impossibilità di tutto il suo discorso di darci un qualche sollievo.

Non c’è resistenza. Non c’è redenzione.

Forse vorrebbe correre fuori, lo penso perchè forse è quello che vorrei fare io, invece se ne sta lì a spiegare e ogni tanto perde lo sguardo al di là delle enormi finestre.

Non resisto a star qui a guardarlo. Eppure lui ci riesce, a guardare noi.

Non so a che prezzo, ma ci riesce.

Il problema sono le pause. Nelle pause, quando finisce una frase e sta in silenzio a pensare la successiva, e noi siamo chini sul foglio, con la penna che finisce come in automatico le frasi e rimane così, in attesa, davanti alla pagina ancora bianca; succede allora che c’è un momento, quando alziamo la testa per vedere che succede, per vedere come mai non sentiamo più nessuna voce, accade in questo secondo che noi percepiamo la vertigine.

È lì.

E’ lì in piedi, con le mani strette attorno al microfono, si staglia contro la parete di legno scuro mentre fissa un punto indefinito in fondo all’aula, oltre le nostre teste che ora sono volti in attesa.

Così, a tratti mi trovo ad essere spaventata da questa cosa. Mi rimetto a fissare il foglio e cerco di recuperare il filo, o provo a rileggere le parole contorte e incomprensibili che ho appena scritto per far passare questi secondi infiniti ma non c’è niente da fare, sono letteralmente paralizzata, perchè è in questi attimi vuoti, chiari e trasparenti che tutte le altre cose sembrano crollare dall’alto verso di noi, minacciano di schiacciarmi, e sono tutte della stessa specie, sono le cose cattive le cose che non dovrebbero succedere le cose possibili e quelle necessarie, e sono qui concentrate in questo silenzio e negli occhi di Petto, una mente tra le menti, che ora però non basta; e di quella mente le parole, capaci di definizioni ardite, di pura conoscenza, capaci di senso, sembrano ora soffocate dal riso beffardo delle cose, che accadono in silenzio, che sono già accadute, che non si possono fermare, e che si annunciano perchè verranno; e verranno, come un ladro nella notte.

Le puoi riconoscere una ad una nel suo sorriso spezzato, nel suo sguardo ora inspiegabilmente smarrito come quando qualcosa che credevi avere in pugno ti sfugge dalle mani.

Durano veramente il tempo di un secondo, queste pause, ma è abbastanza per gettarmi nel panico finchè non lo sento di nuovo parlare. Come se sentirlo parlare risolvesse qualcosa.

Oggi per una volta ho trovato, nel libro che stiamo leggendo, qualche parola sensata e qualche idea che mi pareva buona; ma non ho fatto in tempo a finire di comprenderle che lui subito si è messo a smontarle una per una, ha smontato il significato stesso di filosofia, ed era rabbioso, era cattivo, era come stanco per il troppo combattere, e sembrava non voler più sollevare gli occhi a guardar fuori, perchè ora li tiene puntati verso di noi, mentre attorciglia le mani come rampicanti attorno al microfono, lo tiene stretto e ci dice che un senso non c’è, e ha quel sorriso triste mentre lo dice, e ora nemmeno di Kant parla più, ci dice che neanche il fine c’è, perchè questa, questo mondo e questa vita, è la cosa più insensata in cui siamo capitati.

* * *

Petto sorride quando passa a fatica in mezzo a noi ragazzi ammassati, si fa strada nel corridoio troppo stretto con il suo sguardo furbo. È passato molto tempo dai titoli di giornale trovati per caso e dalle lezioni e da quella strana sensazione che ci prende quando non sentiamo più la voce. Mesi, sono passati. Il suo corso è finito. Cose nuove si sono messe in mezzo a noi. Cose.

Oggi è l’appello di un esame. Siamo in troppi e non sentiamo i nomi che un prof, là in fondo, sta dicendo in tono basso, troppo flebile per noi.

Ma Petto, quanta gente c’è qui, eppure passi senza dir niente, e mentre passi vedi che non sono altro che ragazzi ammassati e ognuno ha la sua vita e le sue cose, ma ora sono tutti qui, tutti salvi.

Perchè loro qui? Perchè loro ?

Eppure è così facile, essere salvi. Può essere facile quanto lo è ora camminare tra noi con quel sorriso e quegli occhi azzurro ghiaccio che non so comprendere ma che hanno dietro un mondo in cui, inspiegabilmente per me, non c’è traccia di odio.

Davvero non so cosa passi per quella mente, Petto, ma so cosa passa per la mia, che di grandi cose non sa niente e non capisce la fisica e si perde dietro a cose lontane e intuizioni improvvise.

Perchè noi siamo qui? Perchè siamo in tanti, e perchè siamo salvi?

E perchè, perchè lui no?

In tutta questa gente, tra tutti questi volti, qualcuno gli somiglierà; e tuttavia in ogni corridoio, e aula affollata, ovunque entrerai ci saranno ragazzi della sua età, ragazzi come lui, ma lui non ci sarà. Dietro ogni angolo, oltre ogni porta chiusa, accendendo la luce in una stanza buia, lui non sarà là.

Tutto questo e molto altro mi ha detto quello sguardo, mentre noi siamo qui e siamo in tanti e siamo salvi e nessuno di noi è lui, nessuno di noi potrà mai esserlo benchè siamo in tanti, e siamo ragazzi, e a logica poteva esserci anche lui qui tra noi, a rigore direbbe qualcuno, ma forse non c’è nessun rigore e nessuna logica, perchè per quanto fosse possibile e semplice e facile, lui no, lui non si è salvato.

Petto, questa cosa che ora ci assale

non ha un nome, e se ce l’ha noi non lo conosciamo

Ma il terrore che ora ci prende

È come è il cielo, calmo nella notte

Dolore nero punteggiato di stelle

Eppure i nostri occhi ancora si incrociano.

Beffardi.

Sembrano così ignari.

Sono azzurri

Il dolore è tutto dentro.

* * *

Ci sono dei momenti, in cui tutto si concentra. Ma un giorno guarderai lontano e tutto se ne sarà andato. I giorni non hanno colpa. Gli altri non hanno colpa. Questi attimi sono innocenti, scorrono come hanno sempre fatto, vengono riempiti di azioni, coincidenze, scontri e incontri; sono io che ci passo in mezzo a rimanere colpita. Sono io, la causa. Ci sono attimi in cui, improvvisamente, tutto si concentra alla massima potenza, tutto sembra avere dentro di sè un fine che ogni cosa raccoglie e ordina a suo piacimento. Io ci passo in mezzo e semplicemente vengo sopraffatta. Ogni cosa ha il suo significato. La marea di significati mi arrivano addosso come un’onda, e io sto come si sta sulla sabbia nel tramonto arancione, a sentire l’onda che mi scuote e mi sposta, sposta il mio corpo sdraiato e immobile come un tronco portato dal mare, mentre io guardo il cielo, meraviglioso, pensando a quel giorno, in cui non ci sarà che calma, in cui le lacrime saranno felicità che lava il viso, e all’orizzonte si potrà slanciare ancora una volta le mani senza paura.



Tuesday, March 2

pazzia: una storia d'amore


*** , dove sei?

Ora ricordo varie cose. Ora il foglio è bianco. La notte è sconosciuta.

Ricordo tante cose.

Sei stato la strada

sei stato felicità di un momento

piacevole sofferenza che mi ha fatto andare avanti

sei conoscenza

anche questo è conoscenza


Dove sei?

Sento lacrime che vorrebbero liberarsi

sento parole che vorrebbero un senso

sento musica

tu sei musica

Non c’è concetto

tu sei una lama affilata

sei ferita sempre aperta

Dove sei? La nebbia oggi ci nascondeva

ma io lo sento

sento che sei qui

il cielo è bianco

potremmo non essere qui, ora

avremmo potuto non vederci mai

questo giorno e tutti gli altri e tutti i prossimi – potevano essere diversi


Dove sei? Sto tremando e non so il perchè

la mia natura prende il sopravvento

sono in tutto, ora

sono nebbia, cielo e neve

ma non basta

non sono soddisfatta

non sono io

sei in ogni cosa che si muove

sei in ogni cosa immobile

gli abeti ora danzano piano

nebbia gelata sopra le nostre teste

ma io ti ho visto, coi capelli arruffati

Dove sei? Dove sarai?

Non so nemmeno chi sei

Ricordo la notte d’estate

i lampi di luglio

sensazione di un tutto che ricomincia

sensazione di un eterno ritorno a cose che pensavo dimenticate

qualcosa di già visto

ma non noioso

come musica che puoi stare ad ascoltare all’infinito

qualcosa che è in te

qualcosa che è in me

brucia come rami secchi

scoppietta come rametti giovani

Io potrei vivere solo di questo

Felicità di un momento

Coltellate senza scopo

Continuo stringere i denti

felicità che se ne va

euforia che torna

attimi senza senso che arrivano e corrono via


Dove sei ora? Io sono qui

a ridere di queste cose

a ridere della nostra ingenuità

e della nebbia e del cielo e della neve

come se non esistesse nient’altro

con lo sguardo perso

a guardare l’orizzonte verso cui vanno le cose da dimenticare

come quando andavamo sull’altalena

e il cielo era solo cielo

e l’erba era solo erba

e il sole e la neve e tutto era solo bello e nient’altro

Sei qui?

lo so che ci sei

domani niente nebbia

domani cielo blu

Ricordo i lampi lontani

rumore di tuoni

la notte è sconosciuta

ma tu sei stato la strada

sei stato felicità di un momento

anche questo è conoscenza

piacevole sofferenza che mi fa andare avanti