Friday, October 4

venerdì sera

Vorrei dire qualcosa, dirlo al mondo, ma in un venerdì sera di feste e birra chi vuoi che stia a sentire le parole scomposte di KK? 
Non le ascolterei nemmeno io, se solo potessi stare dall’altra parte. 
Le rare volte che ci sto, sono spezzata in due. Quando tutto sembra perfettamente ricomposto, KK si sente tranquilla. Ma dura un attimo, ed è raggiungibile solo inondando il corpo di endorfina chimica. KK non sente e non vede la crepa, la frattura che è in lei così fastidiosa. Essa è tanto più odiosa quanto pare assente negli altri. Ma cosa ne sa KK, in effetti? La vita degli altri è solitamente un enigma. Forse, molto probabilmente, la vita degli altri è molto simile a quella di KK. Ma no, quella maledetta crepa non c’è. In loro non ve n’è traccia. Se no non sarebbero tutti così sguaiati. Avrebbero un po’ di rispetto, per chi nella crepa ci vive e, a volte, ci resta secco. Siamo tutti spezzati, ma nessuno vuole davvero ammetterlo. 
Al contrario, KK è maledettamente riflessiva e non vede la stessa attitudine negli altri.

Quando KK si accorse di questo, un giorno lontanissimo, preistorico, del liceo, fu assalita anche da un pensiero autodistruttivo. Chiuse gli occhi e pensò forte forte a come avrebbe voluto nascere dall’altra parte. Loro, i suoi compagni, erano così perfetti. Inconsapevoli della crepa e di tutte le sue conseguenze. Naturalmente era apparenza. Naturalmente quel ridere e quell’emettere sentenze e quello sbaciucchiarsi e dirsi amore tesoro sei stupenda erano una copertura. Dentro loro soffrivano, forse, ma se ne stavano zitti. Ora KK può deriderli, per quella loro pochezza adolescenziale. KK si lasciava così sconvolgere dalle cose e dalla realtà, da scrivere come una pazza, nell’ora di religione, invocazioni e racconti a proposito di criceti su una ruota, che volevano rappresentare gli alunni a scuola. 
Lei li odiava, tuttavia avrebbe tanto voluto essere come loro. Gli altri apparivano isole di perfezione in mezzo al caos dell’adolescenza. Tutto in loro era falso. Allora KK non poteva capire il profondo senso filosofico della loro falsità. La parola falsità era anzi usata a scuola, spesso dagli stessi falsi, per definire chi stava loro antipatico o non si comportava secondo il loro codice. Ma loro incarnavano davvero, nel vestirsi, nel parlare, nei rapporti con gli altri, il grado più potente del Falso. Avanzavano per i corridoi a grandi falcate, decisi, sicuri di sé, e senza degnarti di uno sguardo. Potevi sentire le risate alle tue spalle. A volte ti sbagliavi, quelle risatine non erano per te. Ma a volte si diventa paranoici. La loro sicurezza si nutriva di un saldo quanto effimero controllo sul mondo circostante, fatto da cose, persone, e ambiente in generale. I loro gesti e le loro mosse si adattavano perfettamente all’ambiente e alla situazione. Condividevano con gli altri il modo di chiamare le cose. Condividevano con gli altri il modo di rapportarsi al mondo. KK rimase subito affascinata da questa capacità di adattamento, giudicandola comunque qualcosa di elementare e non particolarmente lodevole. Del resto di comportarsi come gli altri, di essere uno uguale all’altro, sono capaci tutti. KK tentò anche, per un certo tempo, di vedere se un dialogo fosse possibile, con l’altra parte. Le volte in cui dette fiducia, rimase delusa. Allora cercò alleati. Tra quelli che stavano sulla sua stessa barca, ognuno aveva sviluppato modi diversi e fantasiosi per sfuggire all’indifferenza e alle angherie. 
L’importante è identificarsi. Se quelli non sanno cosa sei, non riescono a incasellarti, sei fottuto. 
Se sei indeterminato generi antipatia solo a guardarti. Così c’era chi si rivolgeva al punk. Altri rimanevano orribilmente anonimi. Questi venivano eliminati per primi. Si autoeliminavano. 
Molti lasciarono la scuola proprio in questo modo. KK vedeva la loro sofferenza ma non poteva far nulla. KK ci mise un po’ a ottenere una posizione decente, a entrare in una casella in modo che gli altri smettessero finalmente di chiedersi cosa fosse e smettessero di disturbarla. Tuttora KK non ha idea di quale fosse quella casella e di cosa pensassero gli altri di lei. KK era probabilmente un enigma. A tratti se ne usciva con cose geniali che lasciavano gli altri interdetti. Chissà se avrà acceso in loro una luce, per dire che non è tutto qua. In ogni caso, da quella posizione sconosciuta, KK potè osservare da vicino la nascita e lo sviluppo di quel falso che nella vita adulta causa la stupidità e il danneggiamento del mondo e della vita umana. 
 E KK non ha paura di essere troppo apocalittica dicendo questo. 
I germi dell’odio e della crudeltà di cui l’uomo è capace sono vivi più che mai, in una classe di liceo. 
Il disprezzo che grondava dai commenti alle parole dei prof, dalle risposte stizzite e irrispettose che KK sente ancora risuonare nelle orecchie, era lì, in bella vista nella sua semplicità disarmante. Il candore con cui gli altri rispondevano male ai prof era qualcosa di incredibile. Un giorno la supplente della Giovanelli, che non aveva molti anni più di noi e che tradiva il nervosismo attorcigliando le mani tra loro mentre spiegava, rischiò di scoppiare a piangere. Quegli stronzi l’avevano distrutta psicologicamente. Lei ingoiò le lacrime a fatica. Lei era alla cattedra, ma loro l’avevano trascinata con le parole e gli sguardi e le risatine, tra i banchi, e lei era di nuovo una ragazzina al liceo, angherie che si ripetono ancora e ancora anche dopo che ti sei preso una laurea, un dottorato e hai vinto un concorso. Guardandola senza poter fare niente, KK capì che gli altri e le loro parole subdole, i loro sorrisi di scherno, erano impossibili da fermare. Non c’erano leggi scritte, leggi della scuola, che impedissero a loro di farti stare male anche senza bisogno di parlarti direttamente. 
La supplente infatti non punì nessuno. Piangeva per la sua impotenza, perché contro la pura cattiveria silenziosa non si può far nulla. E anche perché nella classe come nella folla, non c’è nessun colpevole. Risatine continue risuonano tra i banchi, ma chi può dire che sono per te? 


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