Per chi accetta di farsi sconvolgere da eros, le cose sono sempre, perennemente,
irrisolte.
Chi accetta di nutrirsi della sua energia potente, deve
accettare anche di cadere nel vuoto quando questa viene meno. Camminare sull’abisso
è divertente fino a un certo punto. Costruire storie per sopravvivere può
durare per un po’ ma è così maledettamente faticoso.
Piango e non so davvero perché.
Piango e vorrei dirlo a qualcuno. Tante belle parole e tanta fiducia negli
altri e poi invece ecco, siamo di nuovo soli. Perché non può esserci un
equilibrio? Dove se ne vanno i momenti perfetti in cui tutto corrisponde? Dov’è
la tranquillità che sembrava di stringere definitivamente tra le mani e perché improvvisamente
tutto diventa difficile?
Mi sono accorta che viviamo solo di categorie. Le categorie
con cui ordiniamo il mondo, con cui ci hanno insegnato a ordinare il mondo,
sono pure costruzioni, che offuscano e impongono un certo senso allo scorrere
degli eventi, alle cose che accadono. Talvolta assumono più importanza le
categorie delle cose che si vorrebbero categorizzare. Se io penso ad una cosa
sommamente astratta, complicata e assurda come l’amore, le mie categorie mi dicono certe cose, e io ci credo, mi
dicono quali forme e quali modi una cosa come l’amore può assumere; e se gli eventi della mia vita o le cose che mi
succedono non vi corrispondono io vado in crisi, o penso di aver sbagliato
qualcosa. Nei momenti di disperazione, quando il cervello si arrende e la
smette di cercar soluzioni e palliativi per farmi galleggiare, penso di aver
sbagliato tutto. Ma immagino sia tutta colpa delle categorie. Immagino che una
buona parte della mia infelicità stia nel mio modo di pensare quel che avviene,
nel mio modo di dare senso agli eventi, stia insomma nelle maledette categorie in
cui ogni cosa che accade e che pensiamo
viene schiacciata a forza, da sempre, da quando a scuola ci hanno insegnato a
leggere e a scrivere, ma forse da prima, da quando le risposte degli adulti
hanno assunto la rigida fissità propria della verità, e la verità stessa ha smesso di essere sempre ancora
domanda.
Così, le nostre domande si sono esaurite, sono naufragate
nelle risposte e han pensato che andasse bene così, che non ci fosse più
bisogno di chiedere, o che chiedere fosse stupido. Nessuno da allora si è più domandato
perché pensiamo alle cose proprio nel
modo in cui ci pensiamo, e non in un altro. Nessuno si è più chiesto perché
mai dobbiamo pensare a oggetti, eventi, concetti, a una cosa come l’amore, solo all’interno di categorie
così ristrette e così stupide; stupide
nel senso in cui sono stupidi i computer, che non fanno che eseguire
ordini macchinalmente, che si ostinano a ripetere un comando anche quando è
fallimentare, che perseverano nell’errore e cadono in un loop, perché non sanno pensare se stessi.
E che dire delle nostre testoline, in cui si compie ogni
giorno, per ogni storia, per ogni maledetta emozione, l’eterno ritorno dell’uguale;
che dire delle nostre menti tanto brillanti che per un dettaglio insignificante
si fanno rovinare la giornata, perché quel dettaglio, opportunamente categorizzato, costituisce un pezzo di
informazione che riempie di un senso nuovo e nauseante sia il passato che il
futuro, diventa così un dettaglio totalizzante,
che ingombra come un peso morto il passaggio, il cervello, impedisce di vedere
la varietà di soluzioni che il mondo fuori
categoria offre, ma noi siamo ciechi, ma tu sei cieca KK, sbatti la testa
sempre di nuovo nello stesso punto, cerchi spiegazioni sempre di nuovo negli
stessi luoghi, usi ancora e ancora le medesime categorie che ieri e oggi ti
hanno fatto stare male. Esci per un giretto a piedi e osservi tutti, persone,
oggetti, animali, le carte per strada, con aria apocalittica. Le nuvole
inquiete e gonfie di pioggia sono dalla tua parte, l’aria umida che sposta le
foglioline nuove degli alberi è un presagio di qualcosa, ti fa pensare che
tutto alla fine passa, che tutto a un certo momento finisce, te ne sei accorta
due giorni fa quando sotto l’acqua e la neve hai imposto alla tua mente di
stringere i denti e resistere, perché tutto finirà, che sia sofferenza, fatica,
freddo; che sia felicità di un momento, farfalle nella pancia una sera
di aprile, stendersi sul pelo dell’acqua al mare a mezzogiorno, l’aria calda
nelle discese in bici.
Emerge da tutto questo una verità potente, e fuori
categoria, che ha le sembianze di una legge cosmica; e dice che ognuna di
queste cose, ognuna delle Cose, per
quanto sembri non finire mai, a un certo punto non sarà più; e tu potrai
guardarla da lontano, pensare alla distanza che ti separa da lei, pensare a
come hai fatto a superarla o com’è stato possibile che se ne sia andata così in
fretta. Di questa legge che spazza via le categorie, che sferza il sempre
uguale come la piena di un fiume, si trovano tracce sorridenti in ogni cosa che
esiste.
Adesso dalla finestra aperta entra l’aria della sera; il
cielo è finalmente chiaro e pulito, ogni cosa del mondo sembra tornata al suo
posto. È solo apparenza ma evidentemente è quanto basta. Capisco solo ora di
essere io il problema; appare chiaro nella confusione della mia testa che io
sono tutt’uno con quella legge e quella verità, che sono io l’acqua fredda di
quel fiume, e che è la mia corrente a trascinare ogni cosa nella piena,
indefinitamente, senza meta, in continuazione, senza mai fermarsi un attimo a
pensare, senza mai fermarsi sull’argine del fiume a osservare la corsa, i
ciottoli chiari, e il mondo indifferente tutt’intorno.