Wednesday, April 30

categorie



Per chi accetta di farsi sconvolgere da eros, le cose sono sempre, perennemente, irrisolte.
Chi accetta di nutrirsi della sua energia potente, deve accettare anche di cadere nel vuoto quando questa viene meno. Camminare sull’abisso è divertente fino a un certo punto. Costruire storie per sopravvivere può durare per un po’ ma è così maledettamente faticoso. 
Piango e non so davvero perché. Piango e vorrei dirlo a qualcuno. Tante belle parole e tanta fiducia negli altri e poi invece ecco, siamo di nuovo soli. Perché non può esserci un equilibrio? Dove se ne vanno i momenti perfetti in cui tutto corrisponde? Dov’è la tranquillità che sembrava di stringere definitivamente tra le mani e perché improvvisamente tutto diventa difficile?
Mi sono accorta che viviamo solo di categorie. Le categorie con cui ordiniamo il mondo, con cui ci hanno insegnato a ordinare il mondo, sono pure costruzioni, che offuscano e impongono un certo senso allo scorrere degli eventi, alle cose che accadono. Talvolta assumono più importanza le categorie delle cose che si vorrebbero categorizzare. Se io penso ad una cosa sommamente astratta, complicata e assurda come l’amore, le mie categorie mi dicono certe cose, e io ci credo, mi dicono quali forme e quali modi una cosa come l’amore può assumere; e se gli eventi della mia vita o le cose che mi succedono non vi corrispondono io vado in crisi, o penso di aver sbagliato qualcosa. Nei momenti di disperazione, quando il cervello si arrende e la smette di cercar soluzioni e palliativi per farmi galleggiare, penso di aver sbagliato tutto. Ma immagino sia tutta colpa delle categorie. Immagino che una buona parte della mia infelicità stia nel mio modo di pensare quel che avviene, nel mio modo di dare senso agli eventi, stia insomma nelle maledette categorie in cui ogni cosa che accade e che pensiamo viene schiacciata a forza, da sempre, da quando a scuola ci hanno insegnato a leggere e a scrivere, ma forse da prima, da quando le risposte degli adulti hanno assunto la rigida fissità propria della verità, e la verità stessa ha smesso di essere sempre ancora domanda.
Così, le nostre domande si sono esaurite, sono naufragate nelle risposte e han pensato che andasse bene così, che non ci fosse più bisogno di chiedere, o che chiedere fosse stupido. Nessuno da allora si è più domandato perché pensiamo alle cose proprio nel modo in cui ci pensiamo, e non in un altro. Nessuno si è più chiesto perché mai dobbiamo pensare a oggetti, eventi, concetti, a una cosa come l’amore, solo all’interno di categorie così ristrette e così stupide; stupide nel senso in cui sono stupidi  i computer, che non fanno che eseguire ordini macchinalmente, che si ostinano a ripetere un comando anche quando è fallimentare, che perseverano nell’errore e cadono in un loop, perché non sanno pensare se stessi.
E che dire delle nostre testoline, in cui si compie ogni giorno, per ogni storia, per ogni maledetta emozione, l’eterno ritorno dell’uguale; che dire delle nostre menti tanto brillanti che per un dettaglio insignificante si fanno rovinare la giornata, perché quel dettaglio, opportunamente categorizzato, costituisce un pezzo di informazione che riempie di un senso nuovo e nauseante sia il passato che il futuro, diventa così un dettaglio totalizzante, che ingombra come un peso morto il passaggio, il cervello, impedisce di vedere la varietà di soluzioni che il mondo fuori categoria offre, ma noi siamo ciechi, ma tu sei cieca KK, sbatti la testa sempre di nuovo nello stesso punto, cerchi spiegazioni sempre di nuovo negli stessi luoghi, usi ancora e ancora le medesime categorie che ieri e oggi ti hanno fatto stare male. Esci per un giretto a piedi e osservi tutti, persone, oggetti, animali, le carte per strada, con aria apocalittica. Le nuvole inquiete e gonfie di pioggia sono dalla tua parte, l’aria umida che sposta le foglioline nuove degli alberi è un presagio di qualcosa, ti fa pensare che tutto alla fine passa, che tutto a un certo momento finisce, te ne sei accorta due giorni fa quando sotto l’acqua e la neve hai imposto alla tua mente di stringere i denti e resistere, perché tutto finirà, che sia sofferenza, fatica, freddo; che sia felicità di un momento, farfalle nella pancia una sera di aprile, stendersi sul pelo dell’acqua al mare a mezzogiorno, l’aria calda nelle discese in bici.
Emerge da tutto questo una verità potente, e fuori categoria, che ha le sembianze di una legge cosmica; e dice che ognuna di queste cose, ognuna delle Cose, per quanto sembri non finire mai, a un certo punto non sarà più; e tu potrai guardarla da lontano, pensare alla distanza che ti separa da lei, pensare a come hai fatto a superarla o com’è stato possibile che se ne sia andata così in fretta. Di questa legge che spazza via le categorie, che sferza il sempre uguale come la piena di un fiume, si trovano tracce sorridenti in ogni cosa che esiste.

Adesso dalla finestra aperta entra l’aria della sera; il cielo è finalmente chiaro e pulito, ogni cosa del mondo sembra tornata al suo posto. È solo apparenza ma evidentemente è quanto basta. Capisco solo ora di essere io il problema; appare chiaro nella confusione della mia testa che io sono tutt’uno con quella legge e quella verità, che sono io l’acqua fredda di quel fiume, e che è la mia corrente a trascinare ogni cosa nella piena, indefinitamente, senza meta, in continuazione, senza mai fermarsi un attimo a pensare, senza mai fermarsi sull’argine del fiume a osservare la corsa, i ciottoli chiari, e il mondo indifferente tutt’intorno.


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