Tuesday, October 23

bambini a ginevra



Credo sia tempo di dire qualcosa. Non possono mettersi a sparare musica fuori dalla mia finestra a quest’ora  e pretendere che io non abbia niente da dire. Nessuno può pensare che io non abbia da dire.

Parliamone. Mi parli della sua infanzia.

Calma, calma, tutto questo mi pare troppo veloce, tutto insieme, deve capire che non riesco a seguire bene il corso dei miei pensieri.

Da dove partiamo?

Partiamo dalla musica. Ora mi fanno innervosire, non è ancora sera, non è esattamente sera, c’è luce dannazione, ma loro sono là e la musica rimbomba, e molta gente accorre, parcheggia scende e si incammina verso l’enorme tendone, sono famiglie (non è una parola abusata “famiglia”? non è sdolcinata come parola? Eppure in qualche modo si deve parlare…), insomma bambini con magliette e mamme con pantaloncini e altre cose, ma il problema centrale è che sotto il tendone ci sono suoni sconnessi, forzatamente allegri, come se per la felicità, come se per sentirsi vivi, bastasse un ritmo incalzante, così veloce da riempire ogni spazio, ogni tuo spazio, entra e pervade ognuno dei piccoli spaziettini di cui siamo fatti e così, solo così, ci sentiamo pieni. Non è così? È bene che gli spaziettini siano sempre pieni, e contigui, uno a fianco all’altro senza soluzione di continuità, in modo che la serata passi liscia liscia, e perché più tardi si possa uscire dal tendone nella notte umida e calda, e tornare alla macchina. Io sarò qui. Sentirò voci, e portiere sbattere. E macchine partire. La notte è calda, la notte è nera, e una marea di stelle stanno in silenzio sopra il tendone, ma sono lontane e invisibili, perchè l’afa intrappola tutti quaggiù. Perché non possiamo fuggire? Le stelle non si vedono,  e le auto se ne vanno ora. Senti il motore, senti che si allontanano, silenzio.  Siete contenti, ora? Che effetto fa, non sentire più niente? Che cosa succederà, ai nostri spaziettini, se nessuna musica e nessun ritmo allegro li riempirà rendendoci pieni, e completi, e sazi?

Niente di male, KK, niente di male accadrà. Deve smettere di pensare che succederà qualcosa di strano, o liberatorio, o apocalittico, quando le persone intorno a lei si renderanno conto di un inganno, o degli inganni, di cui da sempre sono preda. Per altro non deve escludere, cara KK, che un inganno sia qualcosa di piacevole, e desiderabile, e insomma in ultima istanza sia un male minore.  

Questo me lo hanno già detto. Questo me lo sono già detta troppe volte. Non ho più voglia di ascoltare questi sproloqui, ma perché non posso dire due cose sulla musica odiosa e su un tendone pieno di gente che mangia su tavoli traballanti, e sugli odori di grigliata, e il fumo grigioblù che esce dai lati del tendone e bambini che corrono e piattini di plastica con avanzi scarnificati di costine, perché non posso parlare di questo? E dei suddetti piatti che essendo troppo leggeri non si riescono a tenere in mano decentemente, e perciò molti cedono e perciò molte costine ancora intatte sono ora nell’erba calpestata del campo sportivo, a testa in giù, con il piattino suddetto e maledetto messo sopra a coprire lo scempio. E dei bicchieri di plastica bianchi che immancabilmente si crepano su un lato, vogliamo parlare? E di quanti di essi giacciono in terra schiacciati e orribilmente aperti e squarciati, e delle risa tutt’intorno, e dei ragazzini tirati a lucido che scrivono con la sigaretta il loro nome in svariati oggetti di plastica, con fare spavaldo, e delle giovinette che ridacchiano e si lanciano sguardi mielosi tutt’intorno, vogliamo parlarne? Non capisco perché mai non dovrei farmi domande, su tutto ciò. Ho già dato, dannazione. Non ne posso più di questi ragazzini idioti.

Che c’è che non va, nei bicchieri di plastica? Che cosa di essi l’ha turbata? E poi, che problemi ha, con i “ragazzini idioti”, KK? Del resto si tratta di comportamenti fisiologici, legati ad una fase della crescita. Non era forse anche lei, una di quelle ragazzine mielose?

Allora chiariamo una cosa. Cosa diavolo ne sappiamo di cosa è fisiologico. Lei lo sa che il fisiologico è definito dal patologico? Lei sa che una cosa è normale perché non è malata? Ma il confine dove sta? Lei capirà che questa cosa ha evidenti problemi fondazionali. C’è un circolo. Una petitio principii. Lei mi capisce, no? Che cosa è fisiologico?
Sto cominciando ad avere qualche problema. Non voglio incastrarmi in cose filosofiche, visto che è quello che faccio tutto il giorno, per cui tralasciamo questo discorso. In secondo luogo (visto che lei mi costringe a parlare in modo orrendamente forbito) no no e no, non credo proprio di esser stata una di quelle ragazzine. O meglio, sì, ma ho talmente odiato la cosa che l’esperienza non si è ripetuta.

Ma cosa ne sa? Ma cosa mi racconta? Lei SA che è stata una ragazzina, e sa che ha avuto desideri, speranze, attenzioni, verso i suoi coetanei. Lei ha amato e odiato, ma ha soprattutto amato. Ha sperato e desiderato, era VIVA, non è così?

Ma certo, ma certo. Questo mi fa venire in mente che devo aver sbagliato tutto nella mia descrizione. O più probabilmente la mia mente mi inganna, vuole tenermi all’oscuro di alcune cose.

Noioso. Molto noioso. Da quasi cent’anni ormai sappiamo che la mente ci tiene all’oscuro di buona parte della nostra vita psichica.  

Sì. Questo è un altro problema. Tutto questo è noioso. In ogni caso, sì sì, ammetto di esser stata quella ragazzina. Non mielosa però.

Su, sia ragionevole.

Non mielosa, ribadisco. Insomma avevo il mio personale modo di essere, e basta. E comunque ho sempre odiato i ragazzini spavaldi, i ragazzini che fumano come se lo facessero da una vita, quando la loro piccola e inutile vita è appena iniziata, ma via così, come se fumassimo dall’asilo, quando il massimo che potevano fare era imitare i grandi con le sigarette di cioccolato (un cioccolato che sapeva di carta, dalla consistenza senza senso, granulosa, che tuttavia ho sempre trovato buonissimo).

Bene, ora non so più perché mai avrò fatto questo discorso. La verità è che una tristezza strana, travestita da rivelazione, felicità camuffata, mi è venuta incontro stasera. Quelli-che-non-ce-l’hanno-fatta mi sono tornati alla mente assieme a una stilettata di dolore misto, colorato, vibrante, e il tutto mi ha spinto a dire qualcosa. Improvvisamente ho paura che molte cose possano perdersi per sempre. Ogni giorno perdo attimi e la sera me li ricordo uno a uno ma mi dico che non importa. Però è così che passa il tempo, che non risolve un bel niente.

***

Questa musica che ascolto ora ha dentro un’attesa, di qualcosa di sconosciuto, di qualcosa che alla fine è doloroso ma ancora non sai cosa è o cosa sarà. Prendo in mano il disco e mi accorgo, dopo tanto tempo che non lo guardavo più, che la plastica è un po’ rovinata, e l’etichetta che c’è appiccicata sopra è appena ingiallita. Ma il disco non è vecchio. L’abbiamo preso qualche mese prima che io iniziassi il liceo. In certe canzoni riesco ancora a ricordare quella sensazione. Di non aver ancor incominciato il liceo. Sensazione di una cosa che stava cambiando. Ogni cosa sarebbe cambiata di lì a pochissimo. Era un’attesa fastidiosa, ma fastidiosa è un’aggiunta di oggi. In realtà aveva dentro qualcosa di speranzoso. A volte, nel bel mezzo di questo disco, sento chiaramente quell’attesa, vedo me stessa in auto seduta dietro, guardo fuori dal finestrino un cielo grigio perdersi oltre le montagne, che scorrono verso la pianura, diventano poco più che colline, e poi più niente, e io sto con la testa quasi contro il finestrino, con il discman in mano e le cuffie nelle orecchie. Il discman ha smesso di funzionare un giorno che non ricordo della quarta liceo. Prima di allora, molto era passato dalle sue cuffie. Una volta in una gita in umbria l’avevo prestato alla prof. Giovannelli. Si era sentita un intero disco dei  Coldplay guardando assorta il dolce paesaggio umbro fuori dai finestroni del pullman, e io ogni tanto le lanciavo uno sguardo e ammiravo la sua tranquillità, ed ero contenta che una piccola parte di essa fosse merito del mio discman. La mia inquietudine in quel momento era un poco sopita. Ma le gite scolastiche erano fonte di sofferenze continue. Ora voi avrete da dire sulla parola sofferenze. Lo capisco, insomma non erano sofferenze fisiche, o forse un po’ sì, ma non stavo male, non stavo morendo maledizione. Ma ho un ricordo chiaro, semplice e netto di alcuni momenti di grande insofferenza, cioè della sensazione di essere impotente davanti alla sofferenza, sofferenza causata dalla vista di cose varie, di dinamiche che avvenivano tra i miei compagni, di risa che con me non c’entravano niente, dalla sensazione di esser in mezzo a persone di cui non mi interessava molto e di essere in tanti e di essere nello stesso tempo assolutamente sola. Odiavo assai passare con il nostro rumoroso gregge in posti nuovi e belli e pieni di possibilità, e odiavo essere dentro quel gregge e non poterne uscire, e se loro fanno casino come fanno sempre gli italiani, anch’io sarò tra loro, anch’io sarò loro. Ma la cosa che più mi faceva andare in crisi nelle gite scolastiche era vedere posti nuovi, vedere le persone che vivevano là passeggiare per strada, andare in posta, e fare tutte le loro cose. Insomma vedere posti nuovi era collegato immediatamente, era tutt’uno, con la possibilità che anch’io avrei potuto vivere là, se solo avessi potuto uscire da quella fila di scolari, se solo avessi potuto….rimanere ultima della fila, e alla prima curva della strada fermarmi, e poi correre a perdifiato sul marciapiede nella direzione opposta, e girato un angolo sparire per sempre.

Questo accadde una volta a Ginevra. Era una gita autunnale, e con il mio discman e le cuffie e la musica avevo osservato le montagne avvicinarsi e diventare enormi, mentre mi dicevo che dovevo stare tranquilla perché nessuno lì conosceva le montagne come me, nessuno in quel pullman sarebbe mai sceso e corso nel bosco, nessuno sarebbe stato ore a vagare in mezzo ai pini odorando l’aria o guardando le nuvole. Stavo seriamente cominciando a sentirmi da schifo perché volevo essere in quel posto senza essere nel pullman e senza essere in gita. Invece le solite voci odiose continuavano a urlare e ridere sguaiatamente appena fuori dalle cuffie che avevo nelle orecchie.  Ma niente. Arrivammo a Ginevra senza che tutta la cosa riuscisse a sconvolgermi più di tanto. Mi ero raccontata un sacco di favole sul fatto che qualche mese dopo avrei sicuramente fatto qualcosa, avrei lasciato la scuola, sarei scappata da casa, sarei andata in Canada, e mentre passavamo il Gran San Bernardo tutto questo era già successo, e io stavo vivendo una meravigliosa e perfetta altra vita in British Columbia, dove tutto era al suo posto e non c’era bisogno di gite perché nessuna gita, nessun nuovo posto mi avrebbe fatto desiderare cose che non avessi già, nessun nuovo posto mi avrebbe fatto desiderare di cambiare, mai più.

Il problema fu quando arrivammo a Ginevra. Era una di quelle giornate limpide di autunno inoltrato, in cui il sole è tiepido e le foglie sono rosse e gialle, e il cielo è terso, gelato, perfetto, azzurro chiaro, con striature uniformi di bianco, tirate dal vento freddo.  L’aria era frizzante e sapeva di neve. Il posto era bello davvero. Per una volta una città non mi dispiaceva. Per un po’ comunque la mia testa continuava a vagare in pensieri contorti in cui io non ero io e presto sarei stata qualcun altro e presto sarei stata in un altro posto. Insomma mi ero autoconvinta di essere solo di passaggio, ma non nel senso che ero di passaggio in quella città, ma proprio che il mio essere io in quel momento era di passaggio, era una fastidiosa fase di transizione verso qualcos’altro non meglio specificato; a scuola, in gita, in pullman, in quell’istante in cui stavo nel pullman, io ero di passaggio; io non ero davvero io; eddai! Io non sono una di loro, dopotutto; io vedo tutto questo con occhi diversi; io odio tutto quello che sono e dove vivo e presto andrò da un’altra parte. Presto tutto cambierà. Questa cosa resse per un certo tempo, anche se vacillò quando sentii quell’inconfondibile odore di neve appena scesa dal pullman; quell’odore di legna bruciata che era tanto familiare fu una fitta improvvisa allo stomaco, una coltellata silenziosa. Ero quasi persa. La mia strategia di difesa faceva acqua da tutte le parti.  Tuttavia andai avanti un po’, concentrandomi per non pensare a niente.

La crisi fu quando vidi il lago. Il lago era grande, perfettamente cintato da file uguali di alberi, rossi e arancioni e gialli, e sotto di loro un pavimento di foglie colorate, e intorno al lago correva un viottolo asfaltato dove dei bambini andavano coi pattini, dei bambini svizzeri alle tre di pomeriggio pattinavano intorno al lago, ridevano, erano felici; il giorno stava per finire e loro sarebbero rientrati in una casetta svizzera, in una città che non puzza e dove l’aria sa di neve, e ogni tanto nelle vie puoi sentire il profumo di arrosto che non è come quello di casa, e il profumo di torta, e puoi fare tutto questo in un normale pomeriggio di un giorno di scuola di quegli stessi giorni di scuola che tu odi perché sono fondamentalmente sprecati, inutili, vuoti, perché tu non potrai mai pattinare intorno al lago il pomeriggio dopo la scuola.
I bambini sorridono, ignari di tutto questo delirio che la mia testa fabbrica a loro insaputa e ad insaputa di tutta la fila di miei compagni che avanza scomposta e se ne sbatte altamente dei bambini e del lago, e di tutte le mie malate considerazioni. I bambini che pattinavano intorno al lago è stata la crisi. Era il segno evidente, chiaro e limpido come quel cielo d’autunno, della mia maledetta sconfitta.  Dell’inconsistenza di tutti i miei progetti e piani per cambiare qualcosa, che non erano che castelli in aria. Era orrore, sofferenza, tristezza irrimediabile, era il tonfo sordo di una casa che crolla, del pavimento che si sfascia sotto i miei piedi. Continuai a camminare sul tappeto di foglie mentre il sole faceva strani giochi con l’acqua del lago, ma niente mi interessava più. Tutto era come era, io ero proprio io e non un personaggio di passaggio, io non ero altro che io, e se la cosa mi faceva schifo, bè, c’era poco da fare. Vorrei tornare indietro. Vorrei tornare…

Ora sono proprio io che cammino sul lungolago di Ginevra, sono sempre io che da fuori mi vedo camminare a testa bassa senza capire perché devo sentirmi così male, sono io che mi trascino dietro al mio gregge, sono io che non posso uscire dal gregge né da quella che è la mia attuale vita per pattinare sul lungolago, e i sogni infranti sono ora in mille pezzi scomposti, specchi che riflettono cose a caso, pezzi di progetti e desideri di un’altra vita in un altro posto, diversa, che ora non hanno più senso, anzi sembra che mi deridano per la mia ingenuità. Ahah! Guarda! I bambini giocano ancora, e tra poco rientreranno a casa, dalle finestre puoi vedere la luce gialla della cucina, è caldo dentro, e la cena quasi pronta. Cosa fai tu? Perché piagnucoli? Pensa a camminare dritto. Pensa a camminare dritto. Cammino dritto, gli occhi fissi sulle scarpe di chi cammina davanti a me. Devo concentrarmi per non cadere, perché sto seriamente per cadere giù. Mi guardo intorno in un attimo di disperazione e vedo chiaramente che non c’è via d’uscita. Dove vorresti andare? Non puoi far altro che camminar dritto.

A quest'ora, da qualche parte, i bambini giocano ancora. Io volevo essere uno di quei bambini. Volevo solo pattinare nelle giornate di sole, e aspettare l’inverno, e non sentire più quell’ansia per le cose a venire perché sapevo che non sarebbero state come volevo, sapevo che avrei dovuto sopportare di stare chiusa in casa, che avrei dovuto andare a scuola e stare in un posto che non avrei mai voluto. Volevo solo aspettare l’inverno, ma perché nessuno ha capito? Non volevo  fare del male a nessuno, perché nessuno ha capito?

Bambini, bambini! Cancellate il mio nome e la mia storia, bruciate i miei documenti e tutti i ricordi, sono inutili, sono corrotti, forse sono falsi. Nessuno venga a cercarmi, perché ora starò qui. Nessuno si ricordi di me perché io non ci sono più. Perché non posso essere anonima? Perché non si può cancellare tutto e partire daccapo? Bambini, bambini! Perché perché perché non posso essere una di voi?
Bambini, bambini! Perché perché perché non si può cancellare tutto e partire daccapo? Bambini, bambini! Quand’è quand’è quand’è che potrò essere una di voi?

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