Domenica di ottobre, tiepida,
azzurra, nitida e perfetta. Domenica di ottobre di quelle che anni fa erano
dolorose ma che io superavo ogni volta
dicendomi che un giorno non lontano non lo sarebbero state più. E in effetti oggi
non dovrebbero farmi più quell'effetto. Ma tant’è.
Ora non mi spiego cosa succede.
Sto scrivendo per non affondare del tutto. Mi sembra di affogare.
Mi sento debole. È una cosa
fisica. Mi sembra di non aver la forza di fare niente. È anche una cosa dentro
di me. Perché devo sentirmi cosi? Mi mancano giorni molto più sensati, molto
più pieni. Eppure se ci penso razionalmente, è chiaro che quei giorni
torneranno. E quando succederà, riderò di queste scenate e di quei giorni
inutili come oggi in cui tutto sembra perduto se non si fa qualcosa a dare un
senso di compiutezza, o semplicemente un senso e basta. Cercherò di spiegare il
problema come mi appare ora. Succede che io passo i miei giorni a denigrare la
vita degli altri, la gente che se ne sta col golfino sulle spalle al passo
mentre io arrivo in bici. Allora in quel momento posso ridere di loro e vedere
chiaramente in loro l'immagine di ciò che io non voglio mai essere. Ma il
giorno dopo, o forse no, diciamo un po' di giorni dopo, il corpo libero dagli
effetti dell'endorfina, io senza bici e senza sforzo e senza concentrazione
sono nulla, non ho letteralmente senso, fluttuo nell'aria senza direzione nè
significato. E l'orrore mi prende quando in tutta questa confusione mi pare
anche a me di essere come loro, come quelli che avevo tanto denigrato nei
momenti esaltati e felici, quando avevo il corpo sotto l’effetto di quella
meravigliosa chimica naturale. Questa identificazione improvvisa, che a
pensarci seriamente è semplicemente irreale,
perché è ovvio che io non sono così e mai lo sarò, riesce però lo stesso a dominare
la mia vita nei giorni inutili come oggi.
Succede, penso, perché non riesco
a vedere oltre le cose di oggi. Non
dico di avere un progetto per chissà quale futuro lontano. Anche solo domani,
non riesco a visualizzarlo e far sì che renda meno totale il fallimento che
vedo realizzato oggi, qui e ora. Relativizzare è il segreto per non farsi
sopraffare da questa sensazione assurda. È il segreto perché ciò che è solo una parte non venga improvvisamente preso
per il tutto. Le cose passano sempre, dovrei saperlo, dovrei
averne esperienza, e sì, ne ho esperienza ma non me la ricordo più, non ricordo
più niente di quando queste cose son successe nel passato, di tutti i giorni
come questo di cui poi ho riso quando erano finalmente andati. Non ho memoria,
in niente, non ricordo nessuna di tutte le cose che dovrebbero all'istante
farmi sentire meglio. Non vedo il passato. Non vedo neanche domani. Sono così
dannatamente stanca...non ho fame, ma mi sento debole, strana, vorrei partire.
E fare qualcosa per convincermi che posso ancora rimediare; ma non ho
letteralmente la forza fisica per farlo.
Neppure parlarne qui, scriverne,
riesce ad alleviare questa cosa, riesce a farmi sentire meglio. È un'altra domenica
di ottobre in cui cerco di trattenere i singhiozzi di un pianto a dirotto che
non vuole lasciarmi in pace. È rabbia pura, sensazione di impotenza. Di non
poter far niente per impedire che giorni come questo si ripetano uguali, ancora
una volta. Anche se tutto è cambiato o meglio "tutto è cambiato",
mettiamolo pure tra virgolette visto che sembra non sia cambiato proprio
niente. Riesco a litigare con tutti gli aspetti della mia vita. Non me ne
faccio passare una. Il punto vero qui, che poi forse è una parte della
soluzione catartica che sto cercando, è che io non sopporto le cose che si
ripetono. Divento pazza, non capisco più niente quando qualcosa che mi ero
ripromessa di non vivere più immancabilmente succede di nuovo, uguale, e non
all'improvviso ma con tutta la calma per vederlo arrivare da lontano, passarti
davanti e succedere, semplicemente, davanti a te che anche stavolta non
hai potuto far niente per impedirlo. Probabilmente è un residuo della mia vita
adolescente, in cui letteralmente ogni attimo era perduto, capitava a volte che
guardavo i giorni arrivare e andarsene sapendo esattamente che non sarebbe successo niente a cambiarne
il corso, che io non avrei potuto farci niente, se non stare a osservarne i
particolari, la nitidezza dei giorni di autunno, i riflessi e le foglie, il
cielo alto e freddo sopra di me, osservare tutto questo da dietro un vetro, e
immaginare, pensare, pensare forte forte a occhi chiusi sperando di svegliarmi
da un’altra parte. È successo una volta che ricordo ancora come fosse ieri, e il
ricordo mi provoca una specie di fitta. Ricordo che era fine settembre, il mio
compleanno. Devo andare a scuola, ma io con la testa sono da tutt’altra parte.
Prati dorati, da qualche parte. Nella realtà sono rannicchiata nel letto e
vengono a chiamarmi perché mi devo alzare e andare a scuola. Un venerdì. A
scuola dalle otto alle quattro. In autunno, alle quattro il giorno è già
scappato via. Non voglio guardar fuori dalle tapparelle, ma vedo le lame di
luce e riconosco le tonalità di un giorno di sole. Non voglio, non voglio
vederlo. Sono altrove. Mi chiamano, forse urlano, forse no, perché alla fine è
il mio compleanno. Non supererò mai questa cosa. Questa cosa torna tutte le
volte che c’è un problema. Questa cosa riaffiora come uno scoglio nella bassa
marea. Ma tant’è. Allora sono io rannicchiata nel letto, la testa altrove, la
testa in una valle sconosciuta di mia invenzione, l’aria pulita dell’autunno e
davanti una giornata che non sprecherai,
che potrai vivere come vuoi, a cui potrai dare un nome e che potrai ricordare. Invece no. Devi andare. Devo
andare. Ti chiamano. Mi chiamano. Mi
alzo, non mi guardo in giro, sono uno zombie che non incrocia gli occhi di
nessuno. Niente fuori mi interessa. Niente fuori è qualcosa che voglio. Semplicemente,
qui e ora, questa non sono io. Scaccio con tutte le forze il pensiero che oggi
passerà inesorabilmente e io non potrò far altro che stare a guardare.
Osservare tutte le tonalità che il cielo e le foglie gialle degli alberi del
cortile della scuola prenderanno durante ognuna delle ore di questa giornata.
Sono veramente un genio perché ci riesco, riesco a non pensarci, mi alzo come
uno zombie e come uno zombie esco di casa e guardo in terra per tutta la strada
fino a scuola, e senza droga e senza alcol e senza niente riesco ad
anestetizzare ogni mio impulso e desiderio. Ho passato gli anni del liceo a
sperimentare modi per anestetizzarmi e non sentir niente quando le cose che non
volevo vedere, che proprio non volevo,
mi passavano davanti costringendomi a guardarle. Zombie sul banco di scuola,
zombie a cui niente può far male, zombie che ha imparato a ignorare le cose
cattive, a sopravvivere. Sono uno zombie che riesce a far passare indenne,
pare, anche questo giorno di scuola che sembrava insopportabile. Cercando
distrazioni in modo abbastanza disperato e trovandole sempre. Quindi, è
successo che ancora in equilibrio, per quanto precario, sono tornata a casa e tutto
sembrava normale. Mi sentivo quasi meglio, ora che la giornata, le sue parti
migliori, le ore più splendenti e fonte di sofferenza, erano passate. Ma poi mi
è tornata in mente la valle che avevo in testa la mattina, allora ho preso il
computer e ho cercato le webcam di livigno. Volevo vedere com’era il 23
settembre a livigno. Che poteva essere uno dei tanti posti dove avrei voluto o
potuto essere. Magari, se mi concentravo e lo volevo e ci pensavo forte forte
forte, avrei potuto in qualche modo ritrovarmi là. Nella webcam era una
giornata meravigliosa. Il sole del tardo pomeriggio aveva tutti i colori
possibili. La valle era di tutti i colori possibili. Lontano si vedeva l’ombra
blu scuro degli abeti. Delle persone sulla strada, una macchina, immobili nello
scatto della webcam. Non è finito, questo 23 settembre. Quante cose si
potrebbero fare, ancora, se solo…due passi nel sole della valle, due passi…se
solo…se solo…
Non so che succede ma mi ritrovo
con la testa sul tavolo e una fitta in pancia e un peso gigantesco in gola, mi
stringe e non riesco a respirare bene, mi scoppia la testa, è rabbia pura,
odio, sensazione di impotenza assoluta, stanchezza per questa maledetta presa
in giro, per tutte le maledette volte in cui son stata presa in giro. Alzo gli
occhi, lacrimoni salati si accalcano sul bordo delle ciglia, e vedo tutto come
attraverso l’acqua, tremolante, la webcam sullo schermo del computer ride di
me, nel suo angolo in alto a destra l’orario e la data ridono di me, e io,
ancora una volta, non posso farci niente. Dondola sul tavolo la mia testa vuota eppure
pesante di rabbia e tristezza, dondola e tutto è così chiaro eppure assurdo, e
tutto scorre senza poterlo fermare, e mi ritrovo a odiare la sensazione di
sollievo data dal fatto che finalmente il giorno è finito, anche quella
sensazione non serve, è una sconfitta, ride di me, ride di me ancora e ancora.
Oggi
è tutto passato. Niente più scuola, e niente più zombie. Io non so perché, ma
queste cose mi sono rimaste dentro da allora e ogni tanto vengono fuori, quando
un giorno qualunque di tanti anni dopo, come oggi, le cose si ripetono uguali,
e anche se è davvero tutto diverso, io ancora una volta mi ritrovo a guardare
un giorno passare, e finire. Ogni volta la storia finisce con la testa sul
tavolo a sentire se la ventola del computer mi suggerisce una soluzione.
È cosi difficile da capire, di
cosa ho bisogno? È cosi difficile da capire, che io ho bisogno di perdere me
stessa e poi ritrovarmi di nuovo, ancora sulla stessa salita? Se non ho questa
riconferma ogni giorno, ogni due giorni, se non riesco a buttare là un ostacolo
e partire a testa bassa per superarlo, senza questa cosa io non sono niente,
continuo a fluttuare nel nulla, sono un fantasma in una domenica di ottobre. La
rabbia che ora mi divora, mi mangia letteralmente, la sento stringere, mordere
dentro, lei mi conosce, lei è me, è il mio Io che ride di me che oggi no, non
ce l'ho fatta. Che oggi ha perso di nuovo la riconferma di essere qualcosa di
stabile, almeno per qualche ora chimica in cui la mente è annegata nelle
endorfine e il corpo stanco, e per questo nessun demone viene a reclamare la
mia testa, la mia tranquillità, il racconto della mia vita che ho faticosamente
costruito. Soffro. Ma non è il senso comune di sofferenza. Non è fine a se
stessa. È anche altro. Perché dopo di lei, tutto è meraviglioso, ha nuovo
valore perché ogni cosa non è più lei, non è
sofferenza, non è fatica, ora sei in cima tutto è come un premio, e le
ore di fatica concentrata, in cui senti il corpo cedere, chiamare aiuto,
reclamare ossigeno, sono passate. È cosi difficile, capire che io devo perdermi
e ritrovarmi sempre ancora, sempre di nuovo, perdermi nell'ombra della valle e
alzare la testa e guardare la strada come una lama verticale di asfalto e sulla
strada e l'asfalto lucido il riflesso accecante del sole e abbassare gli occhi,
e la testa, e spingere e stringere i denti e sentire che tutto si perde...ma la
strada e l'asfalto e il sole e i tornanti passano, lenti ma passano e in cima
l'altro te stesso ti aspetta, il tuo fantasma che avevi lasciato in fondo ora è
lassù e tu sei pronto a tornare in te, ritrovi il tuo Io sempre sfuggente e
stavolta te lo attacchi addosso e lo tieni stretto, perché è stato così strano
e terribile perdersi ed è ora così meraviglioso e fantastico ritrovarsi, e
tutto ha più senso, tutto è prezioso, il mondo è più comprensibile e amico,
quelle ore di concentrazione per dosare le forze fanno sì che ora tutto venga
affrontato con la stessa attenzione concentrata, come se stessi camminando su
una corda tesa. Ogni passo è misurato, pare perfetto, perché con te ora c'è
quell'Io che sta in cima alla salita, quello che ti aspetta e torna in te solo
quando sei cima, e quell'Io è stato perso e ritrovato tante volte, e per questo
è la cosa più forte e piena e potente del mondo.
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