Sunday, June 14

epiphanies



Molte primavere sono state così. Ma l’estate? L’estate non doveva essere così. L’estate non doveva nascondere questa debolezza assoluta. Non doveva portare la strana ebbrezza del nuovo? Da quant’è che non senti il nuovo entrare sotto la pelle, avvolgerti nella confusione, farti perdere la strada battuta verso nuove vie, luminose, deserte, mai percorse, pulite?

Io pensavo…io penso sempre troppo. Talmente tanto che poi per lunghi momenti, direi periodi, il cervello si spegne, per evitare un surriscaldamento, per evitare cortocircuiti. Una forma di sicurezza quanto mai necessaria. È tutto previsto, vedi? Molti giorni con la testa vuota, completamente. A chiedersi gli altri cosa fanno, cosa faranno, quante strade da percorrere attendono e per quanto attenderanno. Poi invece le cose riprendono la loro abituale forma, le sequenze di pensieri recuperano un ordine; allora tutto questo pensare torna assurdo, irrazionale; le strade da percorrere che ti attendono? E dove sarebbero? Esiste forse un limbo con le vie non prese, dove le scelte non fatte sopravvivono e formano una storia, il mondo delle alternative, esiste davvero? E quanti di questi mondi diversi dovrebbero esserci, se per ogni scelta possibile se ne generasse uno?
Devo tornare alla filosofia. Sento che intorno a me tutto è orribilmente superficiale. Tutto quello che leggo lo dimentico. Ricordo solo delle sensazioni potenti, che mi si stampano addosso, a volte anche le parole di qualcuno, a volte ricordo una situazione con precisione matematica. A volte ricordo anche l’esatta configurazione del mio pensiero quando affronto qualcosa. Ricordo come mi sono sentita, e riconosco l’arrivo di una crisi, o di un’illuminazione, l’arrivo di un’epiphany che mi si stamperà in testa e che presto tornerà in altre forme. Ma la mente comanda tutto. La mia mente è piena di maledetti mattoncini in posizioni insensate.

Sono come una stanza in cui è esplosa una valigia, e i vestiti stanno sparsi dappertutto, alcuni nella polvere, alcuni sul tavolo, in terra, tra le carte. Forse è esplosa anche la cartelletta dei documenti, i quaderni di scuola, le audiocassette del libro di inglese delle elementari, pagelle di scuola, ottimo distinto buono sufficiente, i disegni, dio i disegni li avevo scordati: ore di scuola passati a disegnare con la testa china sul foglio mentre la prof spiegava, il piacere di vedere le linee nuove uscire dalla matita, danzare sul foglio; in questa stanza confusa è esplosa la cartella di scuola, lo zaino che usavo all’università, fogli di appunti di filosofia, altri disegni, fogli bianchi e inchiostro blu, relativamente ordinato, kant con testo a fronte e appunti a matita a lato, la natura razionale esiste come fine in sé, la natura è teleologica, e poi ecco gli appunti di logica, gli appunti su Freud (la fase in cui l’Ideale dell’Io si stacca è dolorosa, perché quello continua a umiliare l’Io e a far notare la differenza con la perfezione ideale), quanta verità celata in questi fogli, quanta salvezza se ne sta in attesa di essere sfruttata, ma altra confusione nella stanza non mi permette di concentrarmi. I mondi possibili non esistono, esistono solo nella mia mente nel momento in cui decido di farli esistere, per potermi tormentare come accadeva fino a pochi anni fa. Allora le scelte non fatte mi perseguitavano. Le possibilità mancate continuavano a vivere nella mia testa, e con dovizia di dettagli; ma non è bene parlare di questo. La fase è stata quasi del tutto superata, forse anche grazie a quei lunghi momenti di letargo in cui il cervello periodicamente cade, per salvarsi dall’orrore della ripetizione, per non vedere l’eterno ritorno delle cose già viste. Tutte cose già fatte, come alzarsi la mattina mettere in terra i piedi respirare fare pipì lavare la faccia acqua fredda occhi impastati sensazione orribile di debolezza sensazione di già visto pensiero ridicolo che dice che questo giorno è nuovo, questo giorno è uno in più, questo giorno non è stato mai vissuto da nessuno, non ancora, eppure sappiamo bene come andrà a finire, se tutto va bene si intende, e poi un giorno (quanto lontano?) ci sarà un giorno nuovo che sarà l’ultimo (è tanto lontano! O forse no. Ma è inconoscibile, per ora, e questo è abbastanza) e chissà, ci saremo alzati con lo stesso strano pensiero, lavati la faccia e fatto pipì, ma nessuno può sapere queste cose, per cui è anche inutile parlarne, ed è egualmente inutile esserne spaventati.
Nel frattempo attendo con ansia messaggi. Segni di vita. Qualcuno che indichi una direzione.
Ecco, qualcuno si avvicina. È gentile. Io no. Lo allontano malamente; perché non sei tu. Non lo sopporto, non sopporto nessuno, mi danno fastidio gli sguardi che pure avevo desiderato. I gesti, gli occhi, la voce, non li conosco. Non sono i tuoi. Ad aspettarmi, fuori, nella sera, con l’eco della musica lontana, non ci sei tu.

E allora la felicità, quella che è tutt’uno con il nuovo, dov’è? Quella della notte d’estate, ancora bagnata di pioggia, tiepida, infinita, con i tuoi occhi vispi nel buio, guizzanti mentre mi prendi per mano e andiamo via; questa felicità dov’è? Credo di averla intravista in un bar mentre tornavo a casa stasera. Era là con altra gente, persone che si muovono come marionette, sorrisi smorfie schizofrenie braccia che fremono e drink sul tavolo; parlano ma sono burattini muti per me che sto dietro al finestrino dell’auto e per stasera sono salva. Non so se quel che ho visto e provato fosse vera felicità o soltanto sottile piacere di starsene tranquilla a guardare gli altri da fuori, senza pericolo, e non doversi esporre né render conto a nessuno: felicità a buon mercato. Probabilmente era nostalgia per una serata persa, identica a una delle tante sere perse nella mia adolescenza, una serata in cui avrei potuto conoscere il nuovo, che cerco disperatamente, mentre invece sono rimasta a guardarlo passare.

Il mare dietro di voi è grigio, è verde, c’è il sole ma l’acqua sembra sporca, la felicità non vi manca, la felicità non vi manca, il sole bacia i belli dicono, dicono così tante cose, che sera assurda, da un palco lontano sempre la stessa musica e le parole di un’improvvisato speaker distorte dalla distanza, si perdono nella notte, la canzone è allegra (everybody need somebody), tutto questo fa un po’ ridere non è così? Sembrate felici. Ma io cerco sempre le crepe nella realtà, cerco il punto da cui il disastro inizierà, lento, vittorioso, una vita intera raccolta e riassunta in una bolla di sapone color arcobaleno, la tua e la mia e la nostra esistenza sta lì dentro mentre noi la pensiamo infinita e ci preoccupiamo del domani, la bolla dura un attimo e si libra nell’aria leggera rincorsa dai bambini, è una festa di compleanno, dev’essere il ’95, a bologna, una villa sui colli, verde e alberi e portici color ocra e rosso e grandi gazebo con sotto tavoli con sopra dolcetti e poi giochi gonfiabili che i padroni di casa avevano affittato e forse una piscina fuori terra, enorme, il cielo alto, infinito, la vita non è una bolla ma una cosa indefinita ed enorme, senza determinazione oltre l’oggi, senza significato oltre l’istante, oltre l’attesa della torta, del gioco, della mamma che assieme alle altre mamme attende poco lontano, e non ci lascerà mai.

Serata tranquilla, profumo di fiori, come quelli dell’estate della maturità, era luglio e io studiavo e non capivo e solo adesso capisco ed evidentemente è tardi, ma è così per tutti, è così sempre, non ne va mai bene una e dev’essere proprio una certa forma mentis a creare questi disguidi, la notte prima degli esami di maturità non successe nulla di particolare ma ricordo che asfaltavano la strada, tempismo perfetto complimenti, bip bip bip vrrrrrrrr stop bip bip bip eccetera eccetera e altri rumori simili e un caldo esagerato e una puzza di asfalto e gas di scarico, ma sono sopravvissuta, ricordo anche il corridoio lunghissimo e bianco e una leggera corrente d’aria calda tra le teste chine dei miei compagni in lunga fila davanti a me e la non voglia assoluta di stare seduta così tante ore e poi minuti interi a guardare il soffitto le finestre chiuse i professori che camminano lenti lungo i banchi e l’eco dei loro passi cik cik scalpiccio rimbomba nel corridoio sembrano agitati anche loro si sono vestiti bene ci sono i commissari esterni e loro devono essere pronti scattanti preparati puliti e profumati e far vedere che i loro ragazzi non sono delle capre e qualcosa hanno fatto anche se il programma di matematica non era finito ma la prof ha scritto tutto anche le cose che non avevamo fatto e che per fortuna non ci hanno chiesto, ricordo di aver pensato che non li avrei visti più, ricordo che è stata una sensazione strana, un sollievo non del tutto gioioso. 
Ma rieccoci di nuovo qua, anni dopo (pensa un po’ come passano veloce), la sera procede, procederà oltre, ingranaggi ridicoli, pedine ridicole, stiamo giocando e tu non ci sei, ti cerco e tu non ci sei, dovrei impegnarmi di più, dovrei inseguire i sogni con più entusiasmo mentre guarda, basta una giornata no a buttarmi a terra, dopo tutta la fatica per arrivare qui, proprio tu, proprio io, la stanza fluttua nel nulla, quando ho strappato dai muri fotografie e poster del passato mi son sentita meglio, il muro sotto era più bianco e foto e fogli e poster hanno lasciato un’ombra, stencil grigiastri, quadri vuoti, si è anche staccato un po’ di intonaco e il muro sotto era blu scuro, qualcun altro evidentemente stava nella mia stanza prima di me e il bianco non gli piaceva, chissà che tavolo aveva, chissà che cosa faceva, chissà se guardava dalla finestra come me e chissà se gli sarà mai esplosa una valigia nella stanza sparpagliando vestiti ricordi sensazioni racconti in ogni angolo. Ma su questo nessuno saprà mai la verità, e poi forse questo genere di cose succedono solo a me.

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